Il sistema di tutela reale del rapporto di lavoro subordinato ha costituito per più di quarant'anni il centro nevralgico della disciplina del licenziamento individuale.
Introdotto con l'approvazione della legge n. 604 del 1966 e perfezionato per il tramite dell'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (legge n. 300 del 1970), il quadro di garanzie disposto in favore dei lavoratori rifletteva un paradigma basato sulla necessità di tutelare con priorità assoluta la conservazione dei posti di lavoro. Difatti, a fronte di un licenziamento nullo o non supportato da una giusta causa, da un giustificato motivo soggettivo o da un giustificato motivo oggettivo, il giudice avrebbe dovuto ordinare al datore di lavoro di reintegrare in azienda il lavoratore illegittimamente licenziato, eliminando in radice la soluzione di continuità derivante dal recesso datoriale. La significativa restrizione della libertà di iniziativa economica dell'imprenditore, pur garantita dall'art. 41 della Costituzione, si giustificava in ragione della particolare rilevanza che il nostro ordinamento costituzionale riconosce alla dimensione lavorativa della vita dell'individuo: se il lavoro deve essere inteso quale strumento di realizzazione dell'individuo atto ad assicurare a ciascun lavoratore un'esistenza libera e dignitosa [i], è necessaria un'attuazione del dettato costituzionale che miri a preservarne la continuità dagli attacchi delle cangianti e spesso imprevedibili logiche imprenditoriali.
Tuttavia, nemmeno i principi costituzionali possono evitare di confrontarsi con le esigenze della mutevole realtà socio-economica che pretendono di plasmare a propria immagine e somiglianza. Dalle alte sfere dell'accademia alla concretezza degli indicatori macroeconomici, l'attuazione della Costituzione ha dovuto fare i conti con un mercato del lavoro incancrenito dalla patologica mancanza di riforme strutturali e sconvolto dall'onda lunga della crisi finanziaria globale. Così definite le condizioni di contesto, il sistema di tutela reale non poteva sperare di sopravvivere alla tempesta, almeno non nella sua originaria formulazione.
Il modello "Flexicurity"
Flessibilità in entrata e in uscita, piena liberalizzazione delle assunzioni a termine, implementazione di un sistema di ammortizzatori sociali in grado di assicurare sostegno economico e percorsi di ricollocazione ai lavoratori in cerca di un nuovo impiego: sono questi i principi fondamentali del modello "Flexicurity" [ii], paradigma di riferimento delle riforme che nella prima metà del decennio scorso hanno rivoluzionato il mercato del lavoro del nostro Paese.
Così come esplicitato dalla crasi che ne costituisce il nome, il modello Flexicurity si basa sull'idea che la flessibilità dei rapporti contrattuali tra lavoratori e datori di lavoro non sia incompatibile con la sicurezza occupazionale, intesa come garanzia di un aiuto concreto agli individui in cerca di una nuova occupazione. In sostanza, la sapiente combinazione di flessibilità e sicurezza, coadiuvata dalla creazione di istituzioni preposte all'attuazione di politiche attive del lavoro, dovrebbe garantire livelli di tutela almeno comparabili a quelli assicurati dal vecchio sistema di tutela reale. La differenza capitale tra i due modelli insiste sul momento della vita lavorativa in cui la tutela si fa più intensa: da un sistema di conservazione del singolo rapporto contrattuale si passa ad un quadro legislativo che concentra i suoi sforzi nella protezione del lavoratore nelle transizioni i vari rapporti contrattuali.
Tra gli interventi legislativi concepiti sulla base del modello Flexicurity, il più importante è senza dubbio la riforma strutturale varata con la legge n. 183 del 2014 (c.d. "Jobs Act"), in attuazione della quale sono stati emanati numerosi decreti legislativi in materia di servizi per l'impiego (tra tutti, l'istituzione della Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro, ANPAL), di ammortizzatori sociali e, sul versante della flessibilità, di semplificazione dei rapporti di lavoro.
Con riferimento alla materia contrattuale, il decreto legislativo n. 23 del 2015 ha segnato un punto di netta discontinuità con il previgente sistema introducendo il c.d. CATUC, un contratto di lavoro a tutele crescenti che si caratterizza per una peculiare regolamentazione dei casi di licenziamento illegittimo. In applicazione delle disposizioni del decreto, il diritto del lavoratore illegittimamente licenziato ad essere reintegrato in azienda è stato quasi del tutto sostituito dal diritto ad un'indennità risarcitoria calcolata sulla base del criterio dell'anzianità di servizio: in sostanza, il giudice dovrà condannare il datore di lavoro a corrispondere al lavoratore una somma di danaro compresa tra soglie di minimo e massimo legislativamente individuato, dichiarando al contempo risolto il rapporto di lavoro. In ultima analisi, il ristoro del lavoratore licenziato è stato rimesso ad un criterio puramente matematico, la cui caratteristica principale consiste nella tendenziale pre-determinazione dei costi che il datore di lavoro dovrà affrontare per licenziare i propri dipendenti per ragioni economiche.
Gli interventi della Corte Costituzionale
Duramente contestato da lavoratori e organizzazioni sindacali, il nuovo contratto a tutele crescenti ha suscitato serie perplessità di ordine costituzionale. La prova della Costituzione, in particolar modo del principio di ragionevolezza, ha eroso l'originario impianto della disciplina, colpito in due distinte occasioni dalla scure della Corte Costituzionale.
Nel primo caso (sent. n. 194 del 2018), la Consulta ha ritenuto necessario censurare lo stesso principio fondamentale alla base della determinazione della indennità pecuniaria da corrispondere al lavoratore licenziato. Secondo la Corte, il solo criterio dell'anzianità di servizio "non realizza un equilibrato componimento degli interessi in gioco: la libertà di organizzazione dell'impresa da un lato e la tutela del lavoratore ingiustamente licenziato dall'altro" [iii]. La tutela economica così asetticamente determinata, continua la Corte, "non può costituire un adeguato ristoro del danno prodotto [...] né un'adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente" [iv], data anche la possibilità di calcolare con buona approssimazione i costi da sostenere in caso di licenziamento illegittimo. In ultima analisi, ciò che emerge dall'introduzione del CATUC è una inversione gerarchica tra i valori della tutela del lavoratore e della libertà dell'imprenditore di organizzare in piena autonomia la propria attività: una inversione che cancella quarant'anni di rigore imposto dallo Statuto dei Lavoratori, ponendosi in insanabile conflitto con una piena attuazione della Costituzione.
Nel giugno del 2020 la Corte Costituzionale è tornata sul punto con un comunicato stampa, anticipazione del deposito di una sentenza che conferma l'impostazione del precedente intervento.
Benché l'oggetto della sentenza sia circoscritto alla materia dei licenziamenti illegittimi per vizi di forma, il filo conduttore tra le due pronunce rimane chiaramente riconoscibile. Ancora una volta la Corte boccia la pre-determinazione puramente matematica dell'indennità risarcitoria, liberando i giudici ordinari dal meccanicismo imposto dal sistema CATUC. Infatti, ai fini della determinazione del risarcimento del danno a carico del datore di lavoro il giudice dovrà prendere in considerazione una pluralità di fattori, tra cui "il numero di occupati dall'azienda, le dimensioni dell'attività economica, il comportamento e le condizioni delle parti" [v].
Declinare secondo Costituzione
Rispettosa del suo delicato ruolo istituzionale, la Corte Costituzionale non giunge al punto di esprimersi circa la necessità costituzionale di un ritorno al sistema del vecchio art. 18 dello Statuto dei Lavoratori: tuttavia, le due pronunce riportate si abbattono con decisione sul primo elemento costitutivo del modello Flexicurity, la flessibilità, riaffermando con forza un favor prestatoris più conforme allo spirito delle disposizioni costituzionali.
Ad una legislatura di distanza dall'approvazione della legge n. 183 del 2014, valutare gli effetti di una riforma strutturale dalla portata così ampia rimane compito arduo, data la molteplicità di dimensioni influenzate dalla rivoluzione copernicana costituita dal Jobs Act. Le valutazioni prettamente economiche, benché apparentemente meno suscettibili di interpretazioni politicamente orientate, risultano influenzate dai presupposti ideologici e valoriali posti a monte delle argomentazioni di coloro i quali partecipano alla dialettica politica: pertanto, esula dagli obiettivi di chi scrive riportare le linee fondamentali di un dibattito complesso tanto quanto l'oggetto del dibattere.
L'autorevole opinione della Corte Costituzionale, benché distante dall'ingenua concezione di una giurisprudenza costituzionale scevra da considerazioni personali e politiche, risulta essere un parametro di valutazione meno ondivago. Se è vero che il Jobs Act è stato ritenuto necessario da un punto di vista strettamente economico, è altrettanto vero che i suoi ideatori hanno sottovalutato l'esigenza di declinare i suoi principi cardine secondo il contesto costituzionale che contraddistingue la nostra Repubblica.
Chissà che questa miopia non costi ulteriori declinazioni ad opera del giudice delle leggi.
Referenze
[i] Costituzione esplicata a cura di F. Del Giudice, XVII Edizione, Edizioni Giuridiche Simone, 2018
[ii] Per un'introduzione al concetto di "Flexicurity", vedi la voce corrispondente in Treccani
[iii] Sentenza della Corte Costituzionale n. 194 del 2018, punto 12.3
[iv] Sentenza della Corte Costituzionale n. 194 del 2018, punto 12.3, secondo periodo
[v] P. Rotella, Jobs Act, nuova pronuncia di incostituzionalità, Altalex, 2020
Immagine di copertina by Aymanejed on Pixabay
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