Lo scorso 8 aprile i Ministri Luigi di Maio (Esteri), Luciana Lamorgese (Interni), Paola De Micheli (Infrastrutture e Trasporti) e Roberto Speranza (Salute) hanno firmato un decreto [i] in base al quale i porti italiani “per l’intero periodo di durata dell’emergenza sanitaria nazionale Covid-19” non assicurano i necessari requisiti per la classificazione e definizione di PoS (Place of Safety).
Tradotto: per la restante durata dello stato di emergenza -fino al 31 luglio- l’Italia non sarà più un porto sicuro ai sensi della Convenzione SAR firmata ad Amburgo nel 1979 [ii]. Si leva subito un coro di proteste [iii], tra cui quelle di Medici Senza Frontiere, Mediterranea, Open Arms e Sea-Watch da tempo dedite ad attività di soccorso in mare . L’accusa mossa al governo italiano è di aver “strumentalizzato la nozione di porto sicuro” a fronte dell’emergenza sanitaria. [iv]
Occorre a questo punto fare un passo indietro e provare a capire con gli strumenti del diritto internazionale come si distingue un porto sicuro da uno non sicuro.
Una definizione di porto sicuro
In primo luogo, non esiste alcuna definizione universale di “porto sicuro”. La già citata Convenzione SAR (1979) ne richiama il concetto - imponendo agli Stati un preciso obbligo di soccorso ed assistenza delle persone in mare ed il dovere di sbarcare i naufraghi in un porto sicuro (place of safety) – ma non fornisce alcuna definizione operativa. La poca chiarezza in merito è da sempre un bel problema, dal momento che diverse convenzioni internazionali ed il diritto consuetudinario marittimo riconoscono l’obbligo, per capitani e comandanti, di soccorso ed assistenza di naufraghi in mare.
Per cercare di capirci qualcosa è necessario rispolverare una risoluzione - Ris. MSC.167-78 del 2004 dell’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO) [v]. In quest’occasione gli stati membri dell’IMO - Italia inclusa - adottano degli emendamenti alle Convenzioni SOLAS (1974) e SAR (1979), tra cui figurano delle linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare. Si legge al par.6.12:
“un luogo sicuro è una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse, e dove: la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata; le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possono essere soddisfatte; e può essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale».
In sostanza, la risoluzione ci restituisce l’agognata definizione ma i problemi a monte rimangono. In primo luogo, le linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare sono un documento di soft law e quindi non vincolante per gli stati. E tra l’altro, alcuni stati costieri ,tra cui Malta, non hanno neanche ratificato gli emendamenti alle Convenzioni SOLAS e SAR. [vi]
A questi problemi si aggiunge il fatto che la nozione continua a presentare fitte zone d’ombra e sembra indicare cosa sia un porto non sicuro più che il contrario. Questa distinzione è fondamentale, soprattutto quando parliamo di migranti, poiché il soccorso in mare non deve solo rispondere alle regole del diritto marittimo, ma anche soddisfare le tutele internazionali spettanti ai richiedenti asilo.
Visto che la nozione di “porto sicuro” è lacunosa nella teoria, può essere d’aiuto osservare come viene applicata nella pratica. C’è un caso del 2019 che ha fatto molto discutere e che chiarisce come i soccorritori bilancino il diritto della navigazione con le esigenze di protezione internazionale. [vii]
Dalla teoria alla pratica
Il 12 Giugno 2019 l’equipaggio della nave Sea Watch 3, gestita dall’ONG Sea Watch e battente bandiera olandese soccorre 52 migranti sulla costa libica, a circa 42 miglia dalla città di Zawiya.
Una volta comunicata l’operazione di salvataggio alle autorità marittime italiane, la nave riceve nello stesso giorno istruzione di riconsegnare i migranti in Libia. La Libia tecnicamente, ha dichiarato all’IMO una zona SAR (Search and Rescue) all’interno della quale la guardia costiera nazionale opera salvataggi in mare.
Le autorità libiche, intanto, accettano di far sbarcare i naufraghi appena soccorsi sul territorio nazionale e offrono le motovedette della guardia costiera per il trasporto sulla terraferma. La comandante della Sea Watch 3 rifiuta categoricamente di consegnare i migranti.
C’è un motivo ben preciso: la Libia non è un porto sicuro. Se riprendiamo le linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare, lo stato libico non soddisfa i requisiti di sicurezza dei sopravvissuti (c’è in atto una guerra civile) e la loro vita è minacciata (pratiche di violenza e detenzioni arbitrarie sono all’ordine del giorno. [ix] Tante istituzioni, compresa l’IOM, l’UNCHR e la Commissione Europea sono dello stesso parere. [x] [xi]
Esclusa la Libia, alla nave viene prospettata l’ipotesi di sbarcare i migranti sulle coste tunisine. L’equipaggio della Sea Watch 3, però, scarta anche questa possibilità.
Qui la distinzione è più sottile. La Tunisia è molto vicina al luogo del salvataggio, soddisfa i requisiti di sicurezza dei sopravvissuti e la vita di questi ultimi non sarebbe minacciata.
Tuttavia, a giudizio della ONG Sea Watch (e di alcuni studiosi), la Tunisia non dispone di una legislazione completa in materia di protezione internazionale, e quindi non può assicurare tutte le tutele spettanti ad un potenziale richiedente asilo. [xii]
È vero, la Tunisia riconosce lo status di rifugiato (ha firmato la Convenzione di Ginevra del 1951) ma non si è mai dotata di una normativa e di un sistema nazionale di asilo e di accoglienza. Il rischio è che una volta sbarcati lì, ai bisognosi non sia riconosciuto il diritto di chiedere protezione internazionale, come previsto dall' Articolo 1 della Convenzione di Ginevra. Al contrario, lo stato nordafricano era passato alle cronache dei tempi per aver “forzato dei rimpatri volontari”. [xiii]
Alla fine, dopo 17 giorni in mare, la Sea Watch 3 ha attraccato al porto di Lampedusa la notte del 29 giugno 2019. La comandante della nave ha invocato lo stato necessità per giustificare l’ingresso in acque territoriali italiane e nel porto di Lampedusa. Entrambi sono avvenuti i violazione di un divieto imposto del Governo italiano.
Referenze:
[i] Decreto interministeriale REG_DECRETI.R.0000150.07-04-2020. Accessibile qui https://www.avvenire.it/c/attualita/Documents/M_INFR.GABINETTO.REG_DECRETI(R).0000150.07-04-2020%20(3).pdf. [ii] Convenzione SAR, Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo, 1979 https://www.asgi.it/banca-dati/convenzione-internazionale-ricerca-salvataggio-marittimo/. [iii] Intervento di Medici Senza Frontiere, ONG sul decreto porto sicuro: “Salvare tutte le vite, a terra come in mare" 09-04-2020.
[iv] Articolo di Vita, ONG su decreto porto sicuro: "Salvare tutte le vite a terra, come in mare di Alessandro Puglia 09-04-2020. [v] RisoluzioneMSC.167(78), Linee Guida sul trattamento delle persone in mare, 20-04-2004 [vi] Articolo di Mediterraneo Cronaca, “Malta non riconosce le linee guida Imo e nega Pos alla Alan Kurdi” 09/09/2019 [vii] Articolo del Post, “Perché la Sea Watch 3 non è andata da un'altra parte”? 27/06/2019. [vii] Articolo di Euronews, “La Libia crea la sua zona SAR e notifica l'IMO (con il sostegno UE)” di Alice Cuddy, 09/07/2018. [ix] Amnesty International, articolo tratto da News Week: “Tortura e violenze sui rifugiati in Libia: il fallimento delle politiche europee” di Matteo de Bellis 7/03/2019. [x] Comunicato Stampa di CartadiRoma: “La Libia non è un porto sicuro: OIM e UNHCR condannano duramente l’attacco al centro di detenzione per migranti di Tajoura”, 03/07/2019. [xi] Articolo di Adkronos: “Ue: Libia non è porto sicuro per i migranti", 29/03/2019. [xii] Articolo di Euronews: “UNHCR: Tunisia è porto sicuro, migranti non possono rifiutarsi per offerte migliori altrove" di Giorgia Orlandi 31/07/2018. [xiii] Articolo di OpenMigration: "Tra rientri volontari e rimpatri forzati: il nuovo volto della Tunisia” di Romina Vinci 12/12/2018.
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