La frase "Il diritto costituzionale passa, il diritto amministrativo resta" [i] rappresenta l'adagio di riferimento per chiunque voglia tracciare una prima linea di confine tra le due branche del diritto ivi citate. Attribuita al giurista tedesco Otto Mayer, la celebre massima ci restituisce l'immagine plastica di un ordinamento giuridico costituito da rami con differenti funzioni e capacità di resistere all'azione erosiva delle vicende politiche. Ai rami alti dell'ordinamento, cui corrispondono le norme costituzionali, spetta il compito di definire il volto politico della società cui si riferiscono: data la loro funzione, il loro destino è strettamente legato alla sorte del regime politico che le ha volute. Simul stabunt, simul cadent.
I rami bassi dell'ordinamento, rappresentanti le norme amministrative di dettaglio, sono invece relativamente insensibili ai mutamenti politici; benché fondamentali per dare attuazione ai principi costituzionali, queste norme sopravvivono, stratificandosi, in virtù della loro minore valenza politica. La resilienza dei rami bassi, tuttavia, non è prerogativa assoluta delle norme amministrative. Estesa per analogia, l'intuizione di Mayer può gettare luce su tutti i rapporti sussistenti tra la Costituzione e i settori (apparentemente) meno politicizzati dell'ordinamento giuridico: rapporti di reciproca indifferenza che, soprattutto nelle fasi di transizione tra un regime politico e l'altro, finiscono per ridimensionare in modo determinante l'effettività dei principi costituzionali.
Il progetto di Statuto
All'inizio degli anni '50, la Costituzione Repubblicana era ben lungi dall'aver inciso in modo rilevante sulla realtà dei rapporti di lavoro. Con specifico riguardo alla materia del licenziamento, il sistema del Codice Civile (artt. 2118 e 2119) continuava a riflettere un'impostazione di tipo liberale, ispirata dalla necessità di assicurare alle due parti del rapporto di lavoro la libertà di affrancarsi dal vincolo contrattuale in ogni momento [ii]: tradotto, il datore di lavoro poteva licenziare il lavoratore subordinato ad nutum (letteralmente, "ad un cenno"), senza necessità di motivare il proprio recesso. Sul piano delle associazioni rappresentative dei lavoratori, la stessa libertà di organizzazione sindacale (art. 40, comma I, della Costituzione) rimaneva lettera morta, stante l'assenza di specifiche disposizioni atte a garantire la presenza delle rappresentanze sindacali nei luoghi di lavoro.
È in questo contesto di asimmetria tra Costituzione e realtà, tra rami alti e rami bassi dell'ordinamento, che si inserisce il III congresso della Confederazione Generale Italiana dei Lavoratori (CGIL), tenutosi nel novembre del 1952. In quell'occasione la CGIL, guidata dal segretario Giuseppe Di Vittorio, affermava la necessità dell'approvazione di uno "Statuto per la difesa dei diritti, della libertà e della dignità del lavoratore nell'azienda", un testo normativo unitario che disciplinasse in modo puntuale le materie del licenziamento e dell'esercizio delle libertà sindacali in fabbrica, oltre a delimitare entro confini ben definiti i poteri di vigilanza e controllo riconosciuti ai datori di lavoro.
Il progetto di Statuto traduceva in disposizioni a tutela della dignità del lavoratore l'idea che l'imperio della Costituzione non potesse arrestarsi in corrispondenza del perimetro dei luoghi di lavoro. Lasciata in balia di vuote dichiarazioni programmatiche, la Repubblica fondata sulla tutela del lavoro (artt. 1, 4 e 34 Cost.) non aveva avuto la forza istituzionale di penetrare nel tessuto reale delle relazioni industriali: nelle parole dello stesso Di Vittorio, "oggi i lavoratori cessano di essere cittadini della Repubblica italiana quando entrano nella fabbrica"[iii].
Giuseppe Di Vittorio (a sinistra) in compagnia del Segretario del Partito Comunista Italiano, Palmiro Togliatti. Rai Cultura per Storia di un sindacalista. Il racconto per immagini di Giuseppe di Vittorio.
Un mosaico di riforme
La posizione della CGIL rappresentò il punto di partenza di uno straordinario percorso di riforme, facilitato da uno scenario politico più sensibile alle ragioni operaie. Difatti, i governi espressi dal c.d. "centro-sinistra organico", presieduti dal 1964 al 1968 da Aldo Moro, legarono il loro operato a riforme in campo pensionistico (l. n. 903/1965), in materia di infortuni e malattie professionali (l. n. 1124/1965) e, con riguardo alle unità produttive nelle quali fossero impiegati meno di quindici lavoratori, di licenziamenti (l. n. 604/1966).
Nonostante i passi in avanti, il processo di attuazione della Costituzione non poteva considerarsi concluso. L'esigenza del testo normativo unitario immaginato da Di Vittorio nel 1952, reale coronamento della stagione di riforme, divenne il manifesto del c.d. "autunno caldo" del 1969, un periodo caratterizzato da aspre contestazioni sindacali. La pressione esercitata dal movimento operaio funse da catalizzatore del procedimento di approvazione parlamentare e, vox populi, vox Dei, il 20 maggio del 1970 entrò in vigore lo "Statuto dei Lavoratori".
Lavoratori e studenti in corteo, Autunno 1969.
"La Costituzione entra in fabbrica"
Disposizioni in tema di "Libertà e dignità del lavoratore", disciplina degli effetti dei licenziamenti illegittimi, decisa repressione della condotta anti-sindacale: lo Statuto dei Lavoratori rivoluzionava il quadro delle relazioni industriali tra lavoratori, sindacati e datori di lavoro, plasmando a sua immagine e somiglianza la quotidianità lavorativa di milioni di persone.
Con riferimento alla materia dei licenziamenti, lo Statuto spazzava via le impalpabili norme del Codice Civile attraverso la costituzione di un sistema di tutela reale (art. 18): in caso di licenziamento illegittimo o inefficace, il giudice avrebbe dovuto ordinare "al datore di lavoro [...] la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro", condannandolo altresì al risarcimento del danno.
La presenza sindacale nelle fabbriche, tallone d'Achille della precedente disciplina, veniva assicurata mediante la previsione dell'art. 19, il quale prevedeva la possibilità di costituire "Rappresentanze sindacali aziendali (RSA) ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva". L'attività sindacale delle neonate RSA veniva poi disciplinata e tutelata nelle rimanenti disposizioni del Titolo III.
Infine, con formula significativamente ampia, lo Statuto disponeva un rapido meccanismo di repressione della condotta anti-sindacale del datore di lavoro (art. 28), individuata in tutti i "comportamenti diretti ad impedire o limitare l'esercizio della libertà e della attività sindacale nonché del diritto di sciopero" [iv].
2020
Riflettere sullo Statuto dei Lavoratori a cinquant'anni dalla sua entrata in vigore è compito arduo, trasversale: nel crocevia delle sue disposizioni si sono incontrate istanze sociali, politica e tecnica giuridica, andando a comporre una diapositiva in grado di immortalare un Paese nell'atto di diventare Repubblica.
Ad oggi, la tutela reale del rapporto di lavoro consacrata nell'art. 18, forse l'elemento più riconoscibile dell'intero testo normativo, ha ceduto il passo ad una tutela meno intensa, di tipo risarcitorio; più in generale, il modello della c.d. flexicurity [v] ha imposto le sue ragioni sul vecchio sistema di stabilità definito dalle norme statutarie.
Tuttavia, l'importanza dello Statuto deve necessariamente valutarsi a prescindere dal superamento del mondo in cui ha visto la luce, al di là del suo attenuato rilievo giuridico. Le parole di Gino Giugni [vi], il geniale "padre dello Statuto", illuminano la conclusione del nostro discorso:
"Fu un momento eccezionale, forse l'unico nella storia del diritto in Italia: era la prima volta che i giuristi non si limitavano a svolgere il loro ufficio di "segretari del Principe", da tecnici al servizio dell'istituzione, ma riuscivano ad operare come autentici specialisti della razionalizzazione sociale, elaborando una proposta politica del diritto".
La Costituzione era finalmente finalmente materia viva, tangibile. I rami alti dell'ordinamento avevano cessato di predicare nel deserto. Cinquant'anni dopo, è questa l'eredità dello Statuto dei Lavoratori.
Referenze
[i] O. Mayer, Deutsches Verwaltungsrecht, Leipzig, 1895.
[ii] Codice Civile Esplicato, XXII Edizione, Edizioni Giuridiche Simone, 2018.
[iii] Dichiarazione riportata da Rassegna sindacale, n. 29, 23 luglio 1981. A. Piccioni, Congressi della CGIL. Napoli 1952, in difesa della democrazia.
[iv] Il virgolettato del paragrafo "La Costituzione entra in fabbrica" è tratto dalle disposizioni della legge n. 300/1970, liberamente consultabile su www.altalex.com.
[v] Per un'introduzione al concetto di "flexicurity", vedi Treccani.
[vi] Dichiarazione riportata da R. Mania in Giugni, quel socialista per bene che le riforme le faceva davvero, Repubblica, 5 ottobre 2009.
In copertina, la storica prima pagina del giornale socialista Avanti! in occasione dell'approvazione dello Statuto, 20 Maggio 1970.
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