1. Da delitto a diritto fondamentale
Il diritto di sciopero costituisce la manifestazione più intuitiva e immediata della tutela collettiva degli interessi dei lavoratori, storicamente affidata alle organizzazioni sindacali. Duramente sanzionato fino al 1889 (con una recrudescenza della fase repressiva nel periodo fascista) e tollerato fino al 1926, è soltanto con l'entrata in vigore della Costituzione che lo sciopero ha acquisito l'attuale status di diritto fondamentale (art. 40 Cost.): una posizione di particolare privilegio, sottolineata dall'assenza di un analogo riconoscimento costituzionale della serrata, tipico strumento di autotutela dei datori di lavoro. A questa significativa asimmetria si aggiungono le precisazioni della Corte Costituzionale contenute nella sentenza n. 1 del 1974, con la quale la Corte ha riconosciuto la legittimità di forme di autotutela controverse quali lo sciopero con finalità politiche, lo sciopero di solidarietà e lo sciopero di protesta.
Le ragioni della pregnante tutela costituzionale riservata allo sciopero sono da ricercarsi in due principi fondamentali. Il primo, di carattere generale, è il principio dell'eguaglianza sostanziale di cui all'art. 3, comma II, della Costituzione, fondamento dello Stato sociale delineato dalla Carta costituzionale. Il secondo, declinazione del primo nell'ambito del diritto del lavoro, è costituito dalla tutela del lavoratore quale parte contraente debole del rapporto lavorativo: per evitare che le disuguaglianze economiche tra imprenditori e lavoratori sfocino in situazioni di conflitto patologico, la posizione di svantaggio di questi ultimi deve inserirsi in un contesto legale caratterizzato da forti correttivi operanti sul piano contrattuale e, per l'appunto, sul piano degli strumenti di tutela.
2. Tradurre è tradire
La configurazione dello sciopero alla luce delle indicazioni del nostro ordinamento è condizione necessaria, ma non sufficiente, per un inquadramento completo del diritto in esame.
Il processo di integrazione europea, coerentemente con gli obiettivi cui è finalizzato, ha imposto una ridefinizione degli istituti di diritto interno: difatti, la concezione di sciopero accolta dall'ordinamento europeo costituisce il punto d'equilibrio tra le diverse tradizioni giuridiche degli Stati membri dell'UE. Per rendersi conto degli effetti dirompenti che questa sintesi può recare con sé, basti pensare alle differenze intercorrenti tra Italia e Regno Unito, "in cui lo sciopero viene sostanzialmente considerato una violazione contrattuale" [i] che può essere giustificata solo al ricorrere di particolari condizioni.
Tra il nostro diritto costituzionalmente garantito e la violazione contrattuale sanzionata dall'ordinamento britannico, la verità sta nel mezzo delle ricostruzioni della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, l'organo investito della competenza esclusiva in materia di interpretazione del diritto UE. Nel corso degli anni, la Corte è intervenuta più volte in materia di tutela collettiva dei lavoratori, plasmando i concetti di autotutela e diritto di sciopero alla luce di due distinte esigenze: da un lato, la necessità di rispettare le tradizioni costituzionali dei singoli Stati membri, così come disposto dall'art. 4, comma II, del Trattato sull'Unione Europea (TUE); dall'altro, assicurare un governo del processo di integrazione europea in linea con le quattro libertà fondamentali dell'UE, ovverosia la libera circolazione delle persone, delle merci, dei servizi e dei capitali.
Dalla teoria alla prassi, la Corte si è pronunciata sul punto con la sentenza Viking [ii], atto conclusivo di una controversia che ha visto contrapporsi il diritto di sindacati e lavoratori di difendere le proprie ragioni con strumenti di tutela collettiva, tra cui lo sciopero, e la libertà di stabilimento all'estero di cui godono le imprese operanti sul territorio dell'UE.
3. Il caso Viking
3.1 Il fatto
La questione pregiudiziale sottoposta all'esame della Corte di Giustizia nasce dalla decisione della Viking, società finlandese attiva nel settore dei trasporti marittimi, di delocalizzare le proprie attività in Estonia. La delocalizzazione si giustificava in ragione delle condizioni del mercato del lavoro estone, caratterizzato da salari sensibilmente inferiori a parità di mansioni: difatti, era stata proprio la competitività delle imprese concorrenti estoni a provocare l'asfissia degli affari della Viking, da tempo in caduta libera.
Annunciato nel 2004, il progetto della società finlandese si infranse contro la reazione dei sindacati locali e internazionali. Alla prevedibile contro-offensiva interna in forma di sciopero, infatti, si aggiunsero le direttive della ITF, una federazione internazionale dei sindacati di categoria, la quale impose ai sindacati affiliati in Estonia un divieto assoluto di negoziazione con la Viking.
La questione di cui è investita la Corte UE può essere così riformulata: come possono ritenersi legittime le azioni delle organizzazioni sindacali alla luce della priorità assoluta che il diritto UE accorda alla libertà di stabilimento?
3.2 Le argomentazioni della Corte UE
La Corte parte dalla premessa che le azioni collettive, in particolare lo sciopero, siano espressione di un diritto fondamentale di lavoratori e sindacati. Nel caso di specie, tuttavia, è innegabile che l'esercizio di questo diritto si sia risolto nella compressione della libertà fondamentale della Viking di stabilirsi in uno Stato membro dell'Unione: di conseguenza, le azioni delle organizzazioni sindacali in questione "costituiscono restrizioni alla libertà di stabilimento ai sensi dell'art. 43 CE [ora art. 49 TFUE, nda]" [iii]. Il passaggio non è banale. Se è vero che il rapporto tra il diritto fondamentale di lavoratori e sindacati e la libertà fondamentale dell'imprenditore deve risolversi nel senso che il primo costituisce una restrizione della seconda, ma non viceversa, la gerarchia tra i due valori emerge in modo netto. La libertà fondamentale si giustifica da sé, per il solo fatto di essere uno dei cardini del sistema UE; il diritto fondamentale, invece, può giustificarsi solo al ricorrere di particolari condizioni, tra cui la sussistenza di ragioni imperative di interesse generale.
La Corte ammette l'eventualità che la tutela dei lavoratori possa giustificare una compressione della libertà di stabilimento, ma restringe in modo eccessivo i termini di questa tutela, imponendo che abbia ad oggetto posti di lavoro "compromessi o seriamente minacciati" [iv]. In pratica, uno sciopero che avesse ad oggetto la semplice modificazione di una condizione contrattuale non potrebbe in alcun modo incidere sulla libertà fondamentale dell'imprenditore.
Infine, le azioni collettive devono essere sottoposte ad un test di proporzionalità atto a verificare che gli obiettivi dei sindacati non possano essere perseguiti con mezzi meno incisivi. In sintesi, le organizzazioni sindacali devono sempre scegliere di adottare la strategia meno invasiva delle libertà fondamentali garantite dai Trattati UE: se decidono di indire uno sciopero, ad esempio, devono fornire la difficile prova del fatto che agendo diversamente non sarebbero riusciti a tutelare in modo effettivo le ragioni dei propri rappresentati. Com'è facile intuire, la Corte conclude il suo ragionamento imponendo alle organizzazioni sindacali un onere probatorio che si traduce in una probatio diabolica.
4. Verso un nuovo equilibrio
Il quadro emergente dall'analisi della sentenza Viking rende l'idea di una profonda frattura tra il nostro ordinamento e il sistema UE. Gli ostacoli che la Corte di Giustizia pone sul cammino di lavoratori e sindacati riflettono lo spirito di un ordinamento in cui le quattro libertà fondamentali costituiscono la regola, mentre la tutela dei lavoratori è relegata al rango di eccezione da giustificare di volta in volta sulla base di ragioni imperative. L'impostazione accolta dai giudici di Lussemburgo ha suscitato le perplessità della dottrina europea, che ha ravvisato nelle argomentazioni contenute in Viking il manifesto politico di un'Unione Europea refrattaria al riconoscimento dell'eguaglianza tra diritti sociali e libertà economiche.
Tuttavia, non sono mancate obiezioni interne alla stessa UE. Tra tutte, particolare eco hanno avuto le argomentazioni dell'Avvocato Generale Trstenjak, il quale ha ricordato che se è vero che "l'attuazione di una libertà fondamentale rappresenta un obiettivo legittimo, idoneo ad imporre dei limiti ad un diritto fondamentale, dall'altro però anche l'attuazione di un diritto fondamentale va ritenuto un obiettivo legittimo, capace di limitare una libertà fondamentale" [v]. La tesi dell'Avvocato Generale supera lo schema gerarchico definito dalla Corte UE, delineando un meccanismo paritetico di valutazione degli interessi in gioco: le quattro libertà fondamentali tornano finalmente sulla Terra e si inseriscono in un contesto scevro da apriorismi, decisamente più rispettoso delle differenti tradizioni costituzionali degli Stati membri.
La ponderazione degli interessi in gioco proposta dall'Avvocato Generale è stata parzialmente accolta dalla Corte di Giustizia nella sentenza Commissione contro Germania [vi]: un passo in avanti notevole rispetto al dogmatismo espresso in Viking, che rafforza il processo di integrazione europea nel segno dell'equilibrio e dell'armonizzazione.
Referenze
[i] P. Manzini, A. Lollini, Diritti fondamentali in Europa, p. 219, il Mulino, Bologna, 2015.
[ii] Sentenza dell'11 dicembre 2007, International Transport Workers' Federation et Finnish Seamen's Union, causa C-438/05.
[iii] Sentenza Viking, punto 74.
[iv] Sentenza Viking, punto 81.
[v] Conclusioni dell'avvocato generale Trstenjak del 14 aprile 2010, punto 188. Per un approfondimento tematico, vedi Diritti fondamentali in Europa, già citato, capitolo 8.
[vi] Sentenza del 15 luglio 2010, Commissione europea contro Repubblica Federale di Germania, causa C-271/08.
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