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Immagine del redattoreFrancesca R. Moretti

Collaboratori e testimoni di giustizia; quali differenze, quale disciplina

Nel leggere e parlare di Antimafia si trovano spesso riferimenti a “collaboratori di giustizia” e “testimoni di giustizia”. Può venir facile pensare che si tratti della stessa cosa definita in modo diverso, come spesso capita nel linguaggio comune, ma il lessico giuridico tende spesso a essere privo di sinonimi, a delimitare ogni evento con un termine specifico, e questa situazione non fa eccezione. Collaboratore di giustizia, in realtà, è un termine che giornalisticamente ha un sinonimo molto famoso, “pentito”, e ancora nel mondo della criminalità organizzata è “l’infame”, quello che ha cantato, fatto la spia e fornito allo Stato, alla Giustizia e ai suoi apparati, informazioni sui crimini compiuti, sulle persone coinvolte. Il collaboratore di giustizia non è mai stato estraneo alla vicenda di cui parla, ha fatto parte della consorteria di cui racconta, può aver compiuto azioni delittuose in prima persona o conoscere i dettagli di altre. Il testimone di giustizia, al contrario, non è affiliato all’organizzazione, non è tra quelli che lo Stato cerca per punire, membri attivi dell’organizzazione criminale, ma è spesso, al contrario, per primo vittima di quelli che denuncia. Un esempio chiaro, tipico delle pagine di cronaca, sono i commercianti che si ribellano alla richiesta del pizzo. Nonostante la differenza non da poco tra le due categorie, forte soprattutto da un punto di vista umano e morale, lo Stato prevede una normativa rivolta alla protezione di tutti coloro i quali, a diverso titolo, forniscono informazioni rilevanti sulle organizzazioni criminali e i loro membri.(I)

Per analizzare la legislazione in merito bisogna fare un salto indietro nel tempo di trent’anni, fino al 1991, quando, su impulso di Giovanni Falcone, venne alla luce la legge numero 82 in materia di “sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione dei testimoni di giustizia, nonché per la protezione e il trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia;”. Poco più di un decennio prima lo Stato Italiano aveva attivato il sistema della collaborazione con i membri delle organizzazioni terroristiche dei così detti “Anni di Piombo”, utilizzando l’attenuante di pena come merce di scambio per chi forniva informazioni alle autorità. Nel contesto della lotta alla criminalità organizzata, siamo negli anni del maxiprocesso di Palermo, la stessa idea inizia ad applicarsi per i collaboratori di mafia. (II)

Centrale nel progetto è la protezione di chi collabora con lo Stato; il rischio di ritorsioni, verso il soggetto o i parenti più stretti, è altissimo, non sottovalutabile da parte delle Istituzioni. Proprio per la delicatezza della procedura l’atto iniziale, successivo alla denuncia o all’inizio della collaborazione con le autorità, è un’attenta valutazione delle informazioni fornite e della loro veridicità. Quando questa viene riscontrata dalla Commissione Centrale, organo formato da magistrati e investigatori nel campo della lotta alla criminalità organizzata, la o le persone interessate vengono inserite in un programma di protezione testimoni, gestito dal Servizio centrale di protezione. (III) Non solo la sicurezza della vita, ma anche il reinserimento sociale e lavorativo, l’assistenza legale, sanitaria ed economica sono punti focali del programma che protegge e sostiene i testimoni e i loro affetti più cari, spesso familiari conviventi, ugualmente a rischio. La prima modifica sostanziale della normativa arriva nel 2001, quando testimoni e collaboratori di giustizia vengono definitivamente separati a livello giuridico. In particolare diventano più stringenti i termini per i secondi, che devono fornire informazioni alle autorità entro centottanta giorni dalla decisione di collaborare, e per i quali sono stati fissati i limiti di pena da scontare nelle carceri: un quarto della pena stabilita, dieci anni in caso di condanna all’ergastolo. (IV) Per i testimoni di giustizia, invece, si è dovuto attendere il 2018, quando la legge numero 6 ha dato maggior rilievo e valore alla figura di chi, pur estraneo agli eventi criminosi, rende la sua testimonianza al fine di aiutare lo Stato nella lotta contro le mafie. Anche in questo caso gli indici da cui si parte per definire lo status di testimone di giustizia sono chiari e precisi: dichiarazioni attendibili, mancanza di condanna per reati connessi a quello denunciato, pericolo attuale e concreto, ma lo scopo resta quello di sicurezza e, per quanto possibile, normalità della vita. (V) A fronte di tutto ciò bisogna però rispondere alla domanda fondamentale: il sistema ha funzionato? Le denunce sono aumentate, le persone che hanno denunciato sono state protette? A livello numerico parliamo di circa seimila persone, la maggior parte collaboratori di giustizia e familiari di questi, mentre i testimoni di giustizia sono meno di un centinaio, ai quali vanno aggiunti i parenti inseriti nel programma di protezione, poco più di 250 persone. (VI)

Purtroppo, a trent’anni dalla prima disciplina, la vita per chi si avvicina allo Stato esponendosi a rischi resta una vita a metà. Molto spesso vengono fornite identità nuove, ma la sola carta di identità non è sufficiente a creare da zero una vita vissuta. I documenti scolastici, ad esempio, non sono aggiornabili, rendendo chi vive sotto falso nome privo di qualsiasi titolo di studio. La conseguenza è la mancanza di un curriculum, di una storia lavorativa pregressa, degli elementi necessari a poter trovare un’occupazione e, di conseguenza iniziare di nuovo a vivere. (VII) Difficile capire se questi siano elementi deterrenti per altri, persone che vorrebbero denunciare ma faticano a immaginarsi al dopo. Sicuramente si aggiungono alle paure e alle, inimmaginabili per chi non le conosce, angosce che può portare una scelta simile. Le lacune legislative sono molte e non si può che attendere la volontà politica di porvi rimedio, la discussione parlamentare seria e necessaria a provvedere a una disciplina che possa, ma davvero, aiutare a tutto tondo chi si mette a disposizione della legalità.



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