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Combattere l’elusione fiscale torna di moda; è la volta buona?

Aggiornamento: 4 mag 2021

L’elusione fiscale è un tema che ciclicamente torna al centro dell’attenzione mediatica, in particolare quando vengono a galla scandali come i Panama papers. Il 5 aprile di quest’anno invece, il tema è tornato in prima pagina grazie all’annuncio di Janet Yellen, la Segretaria del Tesoro americana, che propose una tassa minima globale per le imprese con lo scopo di combattere l’elusione fiscale fiscale. Le comunicazioni di supporto da parte dei paesi ricchi e delle grandi organizzazioni internazionali come FMI (Fondo Monetario Internazionale), OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) e l’Unione Europea non sono mancate. Il momento è quindi opportuno per capire non solo cos’è l’elusione fiscale, ma anche qual'è il suo impatto sulle disuguaglianze, e quali sono le possibili soluzioni.


Prima di parlare di elusione fiscale, bisogna differenziarlo da un concetto con un nome simile che trae all’inganno: l’evasione fiscale. Quest’ultimo è un atto illecito con il quale il contribuente occulta della materia imponibile, come i profitti aziendali ad esempio, con lo scopo di evitare qualsiasi prelievo fiscale su quella materia. Questo comportamento viene sanzionato sia sul piano penale che amministrativo. L’elusione fiscale invece descrive l’aggiramento del regime fiscale appropriato applicando abusivamente una norma fiscale più favorevole. In altre parole, un’azienda elude il fisco quando approfitta di scappatoie fiscali per trasferire i propri guadagni in paesi dove le tasse sulle imprese sono più basse. Questo atto non prevede nessuna sanzione penale visto che si avvale delle debolezze del sistema fiscale senza trasgredire nessuna legge. Al centro di questo sistema, si trovano i paradisi fiscali che attraggono fondi esteri grazie ai loro sistemi fiscali che garantiscono non solo tasse molto basse, ma anche segretezza per evitare di essere identificati dalle autorità del paese di origine. Per capirlo in modo concreto come funziona, si può guardare come Google trasferisce legalmente i guadagnati ricavati in tutto il mondo in un paradiso fiscale. Per farlo, Google dichiara che le licenze dei propri programmi sono di proprietà della filiale Google nelle Bermuda, dove le tasse sui profitti aziendali sono essenzialmente nulle. Le altri filiali Google devono quindi comprare le licenze per software dalla filiale bermudiana usando i loro ricavi guadagnati in paesi come Italia, Germania e Giappone. Questi ricavi vengono quindi dichiarati alle Bermuda evitando le aliquote fiscali più alte dei paesi dove quei profitti sono effettivamente generati. Questo sistema si chiama transfer pricing, grazie al quale le aziende trasferiscono i profitti da una filiale all’altra dell’azienda così da concentrarli nei paesi con sistemi fiscali più vantaggiosi.


Ma quanto ci perdiamo? Vista l’occultezza di questo sistema, è difficile stimare esattamente quanti fondi vengano trasferiti nei paradisi fiscali. Il Tax Justice Network (TJN), un’associazione indipendente di esperti fiscali, stima che a livello globale 206 miliardi di euro ogni anno non vengano pagati in tasse dalle società. In totale, il rapporto calcola che ci siano all’incirca 25 trilioni (25 mila miliardi) di euro di ricchezza finanziaria privata che vengano tassati poco o niente nei paradisi fiscali. Focalizzanodici sul nostro continente, uno studio dell’Unione Europe pubblicato nell’ottobre 2019 evidenzia che, fra il 2004 e il 2016, l’UE abbia perso 46 miliardi di euro ogni anno a causa dell’elusione fiscale. Tornando al rapporto della TJN, si stima che il fisco italiano perda più di 7 miliardi di euro per via delle multinazionali che nascondono i propri profitti nei paradisi fiscali. Questo equivale allo stipendio di 379 mila nuovi infermieri o ad aumentare il budget per le scuole del 15%. L’elusione fiscale viene praticata da quasi tutte le multinazionali. Il 90% delle 200 più grosse aziende al mondo essendo presenti in almeno un paradiso fiscale. Ancora più preoccupante, l’investimento delle aziende nei paradisi fiscali si è moltiplicato per 4 fra il 2001 e il 2014. Ma andiamo a vedere qualche esempio più specifico. Starbucks ha fatturato più di 450 milioni di euro nel Regno Unito ma non ha pagato niente in imposte sulle imprese. In Italia invece, Netflix paga a malapena 6 mila euro di tasse all’anno, meno di un operaio.

Questo problema non riguarda solo il mondo sviluppato. L’elusione fiscale costa ai paesi poveri almeno 80 miliardi di euro l’anno. Con questa somma, si potrebbe finanziare l’educazione di 124 milioni di bambini ed evitare la morte di quasi 8 milioni di madri, bambini e neonati ogni anno.


Perdite di ricavi in percentuale del gettito fiscale




Questi paragoni accennano al motivo per cui l’elusione fiscale sia un tema così discusso, ossia il suo effetto sulle disuguaglianze economiche. Ciò succede principalmente attraverso 2 canali: il suo impatto sugli introiti dello Stato e il suo impatto sulle Piccole e Medie Imprese (PMI). Le imprese che possono permettersi di eludere il fisco sono infatti spesso le più grandi che quindi dovrebbero contribuire maggiormente al gettito fiscale (ricavi dello Stato attraverso le tasse). Invece, eludendo il sistema fiscale, queste aziende riducono il bilancio pubblico. Il governo ha quindi meno risorse per iniziative come politiche di sostegno alle regioni più povere o per rispondere alle esigenze dei propri cittadini, in articolare dei più bisognosi. Pagare le tasse è inoltre una questione di coesione comunitaria e di solidarietà dove tutti devono contribuire al benessere del paese. Questa dinamica si può osservare anche a livello internazionale. Dagli anni settanta ad oggi, l’Africa ha perso più di un trilione di euro a causa della fuga di capitali. Fra le varie conseguenze, gli stati africani si sono trovate con meno risorse disponibili per sostenere lo sviluppo dei propri paesi e hanno dovuto ricevere imponenti prestiti internazionali causando l’indebitamento del continente e aumentandone la dipendenza dall’estero. Di conseguenza, il TJN fa notare che in realtà “l’Africa è un grande creditore, ma i suoi beni sono nelle mani di una ricca élite, protetta dal segreto offshore; mentre i debiti sono sostenuti dai cittadini africani”. In un quadro già abbastanza complesso e diseguale, entra in gioco la pandemia. Ci troviamo oggi in un contesto dove tutti i paesi del mondo necessitano di maggiori risorse finanziarie per fare rialzare le loro economie dopo un anno abbondante di paralisi pandemica. Però, non possono beneficiare delle importanti contribuzioni che potrebbero arrivare dalle grosse multinazionali per sostenere le PMI, il sistema sanitario e la cassa integrazione. Oltre a ridurre le capacità finanziarie dello Stato, l’elusione fiscale contribuisce alla competizione sleale fra grosse e piccole aziende. Infatti, per trasferire i propri ricavi nei paradisi fiscali, bisogna pagare costosi servizi legali e fiscali per individuare i processi giusti per evitare i regolamenti fiscali del paese di origine. Chiaramente, più un’azienda è grande, più si può permettere questi servizi e più è alto il suo risparmio. Infatti, come si può vedere nel grafico qui sotto, il 98% dei trasferimenti di profitti nei paradisi fiscali viene eseguito dal 10% delle aziende multinazionali più grandi al mondo. Le PMI si ritrovano quindi con un costo aggiuntivo – le tasse – che le rende meno competitive nei confronti delle grosse multinazionali. In più di 20 paesi europei, le multinazionali pagano in media un’aliquota più bassa del 3.5% rispetto alle imprese nazionali comparabili. Di conseguenza, gli Stati non solo guadagnano di meno a causa dell’elusione fiscale, ma devono pure spendere di più sovvenzionando le proprie aziende per mantenerne la competitività.





Visto il grosso impatto negativo che ha l’elusione fiscale sulla maggior parte della popolazione, perché i governi non hanno ancora preso i provvedimenti necessari? Il problema di fondo è che le politiche fiscali sono di pertinenza esclusiva dei singoli paesi quando invece il capitale è sempre più libero di muoversi sui mercati finanziari globalizzati. Un singolo paese ha quindi poco potere sui movimenti finanziari sia in uscita che in entrata sul proprio territorio. Se l’Italia decidesse di aumentare le restrizioni sul capitale di Google in uscita verso i paradisi fiscali, Google potrebbe minacciare di smettere le proprie attività nel nostro paese. Essendo quasi l’unico motore di ricerca usato dagli italiani, una tale decisione avrebbe un impatto politico nonché economico molto importante. La soluzione ideale rimane la cooperazione internazionale. Tutti i paesi del mondo dovrebbero collaborare su misure come imposte sulle imprese, segretezza dei conti bancari e dichiarazione dell’origine dei ricavi (obbligare le multinazionale a dichiarare quanto hanno guadagnato in ogni paese). Un tale sistema è molto difficile da implementare se si considera che più cresce il numero di paesi che cooperano, più cresce l’incentivo di non cooperare. Per capire meglio questo paradosso, supponiamo che tutti i paesi del mondo riescano davvero a mettersi d’accordo per combattere l’elusione fiscale mettendo la stessa imposta sul reddito aziendale. Basterebbe allora che un singolo paese riduca le proprie imposte sulle imprese per attrarre tutte le multinazionali, così vanificando gli sforzi dei paesi cooperanti. Questo meccanismo, chiamato concorrenza fiscale, spinge i paesi ad abbassare le proprie imposte pur di attirare le grosse aziende, come si può vedere nel grafico qui sotto. Perciò, un sistema fiscale globale come quello proposto de Janet Yellen ad inizio aprile rimane molto difficile da implementare.





Negli ultimi anni, sono nate vari progetti provando a risolvere il problema attraverso la cooperazione internazionale. Uno delle ultime iniziative più ambiziose, nata dalla cooperazione fra l’OCSE e il G20 (forum dei leader dei 20 paesi più ricchi al mondo) nel 2015, propose una serie di riforme conosciute come il progetto Base Erosion and Profit Shifting (BEPS). Questa iniziativa portò l’introduzione di varie misure che facilitano lo scambio di informazione e una miglior identificazione dell’origine dei profitti aziendali. Il sistema però non riuscì ad affrontare il problema di fondo che permette alle aziende di trasferire i propri profitti fra le sue varie filiali e dichiararli in un paese con un sistema fiscale più avvantaggioso. Inoltre, il progetto venne contestato per non includere paesi in via di sviluppo nelle negoziazioni. L’OCSE invece nel 2017 annunciò una black list basandosi esclusivamente su criteri di trasparenza che al giorno d’oggi non contiene neanche un paese. Nello stesso anno, anche l’UE lanciò una lista nera con 17 paesi considerati come paradisi fiscali. Questa lista venne fortemente criticata per essersi velocemente ridotta ma soprattutto per non includere paesi membri dell’Unione Europea. Oxfam, un’organizzazione mondiale che si batte contro la povertà, decise quindi di valutare i paesi membri dell’UE usando gli stessi criteri del blacklisting UE e ne risultò che almeno 4 paesi dell’Unione (Irlanda, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi ndr) dovrebbero essere inclusi nella lista. Infatti, Olanda e Lussemburgo sono rispettivamente al terzo e quarto posto nel mondo per valore di gettito fiscale sottratto agli altri paesi del mondo. Un quinto dei soldi persi dal fisco italiano per colpa dell’elusione fiscale finiscono in Olanda. In Irlanda, famosa sede di molte multinazionali, Apple è riuscita a pagare nel 2014 un aliquota effettiva dello 0.005% su utili realizzati in Europa, Africa, Medio Oriente ed India.



L’elusione fiscale è un sistema che avvantaggia solamente le più grosse aziende al mondo, nuocendo sia la competitività delle aziende più piccole, che le società che vedono ridotto il gettito fiscale del loro Stato. Gli effetti negativi vengono risentiti dai paesi ricchi come quelli poveri e non danneggiano solo il loro sviluppo economico ma anche l’integrità delle loro società. Bisogna pure considerare che questo articolo si è concentrato soltanto sull'elusione fiscale aziendale senza coprire quella individuale, praticata dalla maggior parte delle persone più ricche al mondo. I governi non posso affrontare questo problema da soli. Anche se la creazione di un’organizzazione fiscale internazionale sarebbe la soluzione più efficace, non è realisticamente implementabile. Una proposta che negli ultimi anni sta attraendo molto interesse è quella di considerare ogni multinazionale come un soggetto unico invece che considerare ogni filiale come una entità separata. Questo obbligherebbe le multinazionali a dichiarare l'origine dei loro guadagni. Questo sistema richiede non solo forzare le aziende a pubblicare quale porzione del loro profitto viene da ogni paese dove essa è attiva, ma anche di introdurre leggi basate su queste informazioni che puniscono le aziende che praticano il transfer pricing. Gli sforzi visti negli ultimi anni dalle grandi organizzazioni internazionali dimostrano che ci sia una volontà crescente di fronteggiare il problema. Per esempio, il BEPS discusso precedentemente include un primo tentativo per obbligare le aziende a dichiarare da dove provengono i ricavi. Nella lotta contro l’elusione fiscale, l’Unione Europea si sta proponendo come uno degli attori più aggressivi ed efficaci, ma l'UE non può assumersi la leadership mondiale in questa lotta finché continua ad ignorare l’esistenza di paradisi fiscali dentro le sue proprie frontiere.



Fonti



Fonti foto


https://www.weforum.org/agenda/2020/02/how-do-corporate-tax-havens-work/

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