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È sufficiente donare vaccini per sconfiggere la pandemia nel mondo?

Ancor prima che i vaccini anti-Covid iniziassero ad essere distribuiti, i paesi più ricchi erano già fortemente criticati per essersi aggiudicati la maggior parte delle dosi in produzione. In particolare, oltre al rischio poi avveratosi, dell’emergenza di nuove varianti, si sottolineava anche il timore che la diversa disponibilità di vaccini potesse aumentare le disuguaglianze economiche fra paesi ricchi e quelli in via di sviluppo.

Per rispondere a queste critiche, i Sette paesi più industrializzati al mondo hanno annunciato durante il summit del G7 di metà giugno che avrebbero donato quasi un miliardo di dosi di vaccini contro il COVID-19 ai paesi più poveri attraverso il sistema COVAX. Al contempo, si osserva però il paradosso per cui paesi come Malawi e Sud Sudan stanno bruciando buona parte delle dosi che hanno ricevuto, principalmente per difficoltà di gestione e distribuzione. Sorgono quindi naturali alcuni interrogativi: stiamo facendo abbastanza per evitare l’accesso differenziale al vaccino? Quali sono le conseguenze economiche di queste disuguaglianze?


Una campagna vaccinale che non beneficia tutti

Come si può vedere nella mappa qui sotto, i paesi che hanno vaccinato la percentuale più alta della loro popolazione tendono ad essere i paesi più sviluppati mentre invece i paesi a basso reddito, in particolar modo quelli africani, sono rimasti indietro. Per esempio, in Canada e nel Regno Unito circa due terzi della popolazione ha ricevuto almeno una dose mentre in Italia e Francia la percentuale gira intorno al 50% ed è in forte crescita. Invece, i due paesi con il PIL più alto del continente africano, Nigeria ed Egitto, hanno rispettivamente vaccinato con almeno una dose solo il 1% e il 3% delle loro popolazioni. Bisogna anche notare che ci sono paesi meno sviluppati che stanno riuscendo a vaccinare con successo i propri cittadini come Uruguay e Mongolia che hanno entrambi vaccinato con almeno una dose circa il 60% della popolazione.

Per converso, vediamo però tassi di vaccinazioni molti bassi anche paesi che non avrebbero difficoltà ad acquistare vaccini: un esempio per tutti il Giappone (che pure ospiterà le Olimpiadi) che ha vaccinato il 20% della popolazione con almeno una dose ma anche la Russia (14%) che pure è produttrice ed esportatrice di vaccini prodotti nel Paese. A conferma dell’influenza che hanno anche aspetti di natura socio-culturale su cui non si sofferma questo articolo.

In totale, solo 23 paesi su 195 hanno una percentuale di vaccinati superiore al 30%.


Come stiamo combattendo questo accesso eterogeneo ai vaccini?

È chiaro che non tutti hanno la stessa facilità di accedere al vaccino contro il COVID. Per combattere la disuguaglianza vaccinale, è stato creato ad aprile 2020 l’Acceleratore per l’Accesso agli Strumenti COVID-19, anche detto ACT. È una collaborazione globale che include governi paesi ricchi e poveri, organizzazioni internazionali e fondazioni filantropiche per accelerare la produzione e l’accesso equo a test diagnostici, terapie e vaccini contro il COVID. ACT è composto da 4 pilastri: diagnostica, terapia, sistemi sanitari e vaccini. In totale, più di $16 miliardi sono stati promessi per questa iniziativa dai vari attori prima citati.

La maggior parte dei fondi ($8,7 miliardi), di cui l’Italia è l’ottavo donatore mondiale, sono andati allo sviluppo e distribuzione di vaccini (il quarto pilastro) attraverso COVAX. Lo scopo di COVAX è di investire nella ricerca, sviluppo e distribuzione di vaccini in modo equo. Il suo obbiettivo è di rendere disponibili due miliardi di dosi di vaccini anti-COVID-19 ai paesi che vi partecipano entro la fine del 2021, incluse almeno 1,3 miliardi di dosi per le economie meno sviluppate. Per arrivare a questo obbiettivo, a inizio giugno l’organizzazione COVAX aveva già confermato l’acquisto di più di 2 miliardi di dosi. La prima distribuzione di dosi attraverso questo programma è avvenuta a fine febbraio in Ghana e da allora oltre 100 paesi hanno ricevuto almeno una fornitura.


Arrivo di 24.000 dosi di vaccini AstraZeneca in Namibia grazie a COVAX

Anche COVAX però è stata fortemente criticata. L’acquisto di dosi è considerato troppo lento in confronto ai paesi ad alto reddito che hanno comprato più di 5 miliardi di dosi. Inoltre, la distribuzione delle dosi è concentrata in una manciata di paesi, con i tre quarti delle dosi distribuite a soli 10 paesi. Ancor più preoccupante, sono i ritardi previsti nei prossimi mesi dovuti alla drastica riduzione delle forniture da parte del principale fornitore di vaccini di COVAX, il Serum Institute of India. Questo calo è dovuto all’ultima ondata del virus in India che ha portato il governo indiano a bloccare le esportazioni di vaccini.


Va bene contare i vaccini, ma come si distribuiscono?

Per quanto l’annuncio della donazione di un miliardo di vaccini da parte dei membri del G7 sia un grosso passo avanti, esso non tiene in considerazione un importante ostacolo nell’inoculazione delle popolazioni dei paesi in via di sviluppo: l’infrastruttura. Infatti, mentre le dosi scarseggiano nei paesi meno benestanti, alcuni dei loro governi hanno dovuto rinviare o addirittura distruggere le poche dosi ricevute. Per esempio, il Malawi e il Sud Sudan hanno letteralmente bruciato rispettivamente 27.000 e 59.000 dosi del vaccino AstraZeneca perché non sono riusciti ad usarle prima della loro scadenza. La Repubblica Democratica del Congo ha recentemente annunciato che non riusciranno ad usare i 1.3 milioni di vaccini ricevuti attraverso COVAX. Saranno quindi spediti in Ghana e Madagascar dove la campagna vaccinale è più efficace. In totale, 15 paesi africani hanno usato meno della metà delle dosi ricevute.


La ministro della saluta del Malawi Khumbiza Chiponda incenerando dosi di vaccino


In generale, il continente africano ha acquistato notevole esperienza nella vaccinazione per altre malattie come il morbillo e la febbre gialla. Però, non ha l’infrastruttura adatta per accompagnare una campagna vaccinale di queste dimensioni e a tale velocità. Il problema non è solo la mancanza di personale medico e ospedali, ma anche di infrastrutture basiche come strade ed aeroporti, rendendo problematica la distribuzione dei vaccini nelle aree remote. Al grosso ostacolo infrastrutturale si aggiunge anche lo scetticismo sull’efficacia e la sicurezza dei vaccini.

ACT riconosce la necessità di rafforzare le infrastrutture sanitarie nei paesi in via di sviluppo con uno dei suoi 4 pilastri dedicato al sistema sanitario. Malgrado ciò, quest’ultimo riceve meno del 4% dei fondi totali promessi ad ACT, sebbene questo tipo di investimento non porterà benefici soltanto per lo sforzo vaccinale contro il COVID. Esso infatti, consentirà anche di aumentare la prevenzione e la resilienza dei paesi a basso reddito alle future virus pandemie che periodicamente insorgono (basta ricordare da ultimo il dramma di Ebola).


Gli effetti delle disuguaglianze vaccinali sulle disuguaglianze economiche

Quando si analizzano gli effetti della pandemia, si guardano giustamente i dati numerici come quelli dei casi, dei decessi o del tasso di infezione. Bisogna però guardare anche gli effetti economici della pandemia e delle conseguenti restrizioni. Infatti, più un paese è efficace a combattere il virus, meno restrizioni dovrà imporre sulla sua popolazione e prima potrà tornare a far crescere la propria economia. Queste conseguenze sono già visibili. Secondo la Banca Mondiale, le dieci economie con il tasso di vaccinazione più alto sono previste di crescere del 5,5% nel 2021. La crescita per i dieci paesi con il tasso di vaccinazione più basso sarà solo del 2.5% e le previsioni continuano a scendere (erano del 3,4% all’inizio dell’anno). Come si può vedere nel grafico qui sotto, c’è una chiara correlazione positiva fra la percentuale di persone vaccinate con almeno una dose, e l’aumento del PIL nel 2021.


Inoltre, una crescita diseguale rischia di innescare un ciclo vizioso. La crescita economica di alcuni paesi ha portato ad un naturale aumento della loro inflazione. Però, ha anche causato la crescita dei prezzi in paesi che non sono ancora usciti dalla crisi. Per esempio, a maggio, l’inflazione statunitense ha toccato il 5% in confronto all’anno scorso. Meno di un mese dopo, la Banca Centrale russa ha dovuto alzare i propri tassi d’interesse (in altre parole, frenare l’economia) malgrado un andamento economico ancora stagnante. Secondo la Governatrice Elvira Nabiullina, i prezzi in Russia sono aumentati proprio per colpa della ripresa delle grandi economie occidentali.


Ma quanto ci guadagniamo aiutando gli altri a sconfiggere il COVID?

Secondo uno studio condotto dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale, sarebbero sufficienti altri $50 miliardi per sconfiggere la pandemia. Di questa somma, solo $4 miliardi sarebbe destinata all’acquisto di vaccini. La fetta maggiore, $20 miliardi, servirebbe per l’acquisto di attrezzatura protettiva e di materiale per testare e curare le persone. Inoltre servirebbero $6 miliardi per aiutare i paesi a prepararsi per la campagna vaccinale e altri $4 miliardi per migliorare i sistemi sanitari pubblici. Così facendo, si potrebbe vaccinare il 60% della popolazione di ogni paese al mondo entro l’inizio dell’anno prossimo. Anche se può sembrare una somma importante, lo studio stima che completando questo investimento si potrà aumentare l’economia globale di $8 triliardi (8 mila miliardi) nei prossimi anni.



Finora, la distribuzione di vaccini è stata particolarmente disomogenea e ciò ha rafforzato le disuguaglianze economiche fra i paesi più sviluppati e quelli a basso reddito. Ora che i paesi ricchi stanno completando le proprie campagne vaccinali, iniziano a donare un numero sempre più importante di dosi. Malgrado ciò, molti paesi in via di sviluppo non hanno la capacità di assorbire tali quantità di vaccini. I finanziamenti per la produzione e distribuzione di vaccini devono essere accompagnati da importanti investimenti sulle infrastrutture – in particolar modo quelle sanitarie – per aiutare questi paesi a distribuire le dosi e a curare i malati. Se le sofferenze di milioni di persone a migliaia di chilometri da noi possono sembrarci distanti, al netto della imprescindibile dimensione etica del problema, ricordiamoci che minimizzare il rischio di nuove varianti ed aiutare il contenimento di futuri virus in paesi lontani può evitarci la carenza di generi di prima necessità (chi non ricorda le file fuori dai supermercati per la carta igienica?).



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