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Immagine del redattoreGiorgia De Giacomi

Emissioni: politiche per controllarle

Aggiornamento: 29 gen 2021

Le emissioni di CO2 non hanno paese, non hanno confini. Possiamo individuare, al limite, un luogo di partenza (anzi, molti luoghi di partenza) e un unico luogo di arrivo, l'atmosfera. Causano uno dei fenomeni più inquietanti del nostro tempo: il riscaldamento globale. Ci sono luoghi che vengono colpiti più di altri dalle conseguenze, come le calotte polari, dove, a causa di un fenomeno chiamato amplificazione artica, la temperatura si alza due volte più che il resto del pianeta. Ci sono luoghi in cui causano monsoni, eventi climatici estremi e fanno crescere il livello del mare. “Fanno” è il verbo sbagliato. “Facciamo”. Perché l’aumento dei gas effetto serra è dovuto alle nostre azioni: all’energia che consumiamo (41.7%), ai trasporti (16.2%), alla produzione agricola (18.4%) e a quella industriale (5.2%). È dovuto all’attività di alcuni paesi più che di altri: prima fra tutti la Cina (27%), seguita da USA (15%), Unione Europea (9,8%) e Russia (4.7%).


Abbiamo creato un sistema economico che causa effetti collaterali, le esternalità negative, che ora ci si ritorcono contro e modificano quel clima, quelle condizioni sulle quali abbiamo fondato le nostre abitudini di vita. Siamo stati capaci di affrontare molte sfide, di correggere molti errori e abbiamo inventato (e a volte anche applicato) politiche che ci hanno permesso di correggere esternalità negative come le emissioni. Sentiamo parlare spesso di carbon tax, di controllo delle emissioni, di obiettivi nazionali e internazionali che gli stati si pongono per abbattere i gas climalteranti. Si ha la sensazione che azioni così imponenti e così lontane da noi siano poco efficaci. Forse perché riguardano realtà che non possiamo vedere e quantificare da noi. O forse perché non le conosciamo: l’obiettivo di questo articolo è proprio questo, far sentire queste misure un po’ più vicine, nella loro diversa efficacia.


Standard e regolamenti

Lo strumento di controllo delle emissioni più intuitivo e familiare è quello degli standard e dei regolamenti. Questi possono richiedere al consumatore e al produttore di smettere di consumare un certo tipo di bene (combustibili fossili, tecnologie inquinanti, foreste pluviali) o obbligare i produttori a fabbricare in un certo modo, imponendo l’uso di materiali o tecnologie più sostenibili nel produrre i nuovi articoli che entrano in commercio. Un esempio vicino è il nuovo standard europeo approvato nel 2019 che impone che le nuove automobili riducano le emissioni di gas effetto serra del 15% entro il 2025 e del 37.5% nel 2030. In questo modo le emissioni europee che derivano dal settore dei trasporti potrebbero essere ridotte del 23%.

Gli standard e i regolamenti sono efficaci perché impongono linee guida chiare, facili da controllare e adattate al settore specifico. Rischiano però di frenare l’innovazione tecnologica: un’impresa che ha il timore dell’imposizione di nuovi standard e di modifiche continue agli stessi ha meno incentivo ad investire in ricerca e sviluppo.


Incentivi e disincentivi monetari

Altre politiche puntano alla creazione di un mercato delle emissioni assegnando loro un valore attraverso incentivi e disincentivi monetari.

Il ragionamento è questo: emettere gas dannosi per il clima attualmente non costa. Costa alla società, e molto, ma i consumatori e produttori pagano prezzi di mercato molto bassi per emettere CO2 ($2 alla tonnellata). Se le emissioni costassero effettivamente l’equivalente del loro danno sociale, però, il mercato ne correggerebbe l’uso eccessivo. Verrebbero prodotte meno emissioni (a causa del loro costo elevato) e anche qualora alcune imprese decidessero di emettere, il pagamento potrebbe essere impiegato per compensarne i danni. Secondo lo Stern-Stiglitz Report, per raggiungere gli obiettivi dell'accordo di Parigi ogni tonnellata di CO2 dovrebbe costare $75.

Questo approccio è stato pensato come vincente da alcuni paesi (come Svezia, Svizzera, Finlandia e Norvegia) che hanno imposto un prezzo tra i $53 e i $119 a tonnellata di CO2. Il fatto che queste tariffe siano però state adottate solo da alcuni paesi crea un problema di concorrenza. Le imprese dei paesi che si trovano costrette a pagare una carbon tax sono svantaggiate, sul piano internazionale, rispetto alle imprese dei paesi che non devono farlo e che approfittano del vantaggio competitivo di pagare solo 2$ ogni tonnellata di CO2. L’imposizione di queste tasse, poi, causa spesso problemi distributivi qualora non venissero compensate adeguatamente le fasce più deboli sulle quali ricadono queste tasse.


World Bank (2020) Carbon Pricing Leadership Report 2019/2020. World Bank. Washington, DC

Gli stati possono imporre un pagamento alle imprese per permettere loro di inquinare oppure possono pagare le imprese per incentivarle a non inquinare tramite l’erogazione di sussidi, incentivi, fondi in ricerca e sviluppo. Il settore energetico è stato spesso oggetto di questo tipo di politiche: nel 2017 si stima che vi siano stati investiti $634 miliardi. Se questi investimenti riuscissero ad essere fortemente sbilanciati verso le energie rinnovabili, questo potrebbe in parte compensare i danni di quelle non rinnovabili (il settore energetico emette il 41.7% di CO2): purtroppo nel 2017 solo il 20% di questi investimenti sono stati in energie rinnovabili.

Questa tipologia di politiche tende ad espandere il mercato a cui è applicata: se si applica un incentivo all’industria delle rinnovabili, nuove imprese si convertiranno e produrranno rinnovabili per accaparrarsi l’incentivo. Vale purtroppo anche il contrario: se si applica un sussidio alle industrie che producono energia non rinnovabile, per esempio per compensare un tetto massimo di produzione o una carbon tax, tutte le imprese produrranno meno ma nuove imprese entreranno nel mercato delle non rinnovabili per accaparrarsi quel sussidio.


Permessi di emissione

Un altro modo per controllare le emissioni è quello della creazione di un mercato di permessi negoziabili di CO2. Uno stato, o un insieme di stati, decide una quantità massima di emissioni, lo divide per le maggiori imprese emettitrici dello stato, o i settori che le emettono, e li assegna (o li vende) alle stesse. Ogni impresa ha così un tetto massimo di emissioni annue: in questo modo globalmente il livello di CO2 resta fisso. Gli stati possono calare quantitativamente quei permessi nel tempo, in modo da imporre anno dopo anno limiti massimi di emissioni sempre più bassi. Le imprese possono poi scambiarli: quelle che riescono ad abbattere più facilmente CO2 vendono così i loro permessi a imprese che eccedono nella produzione di gas climalteranti. Il fatto, però, che alcune imprese riescano ad abbattere le emissioni più facilmente può dare loro un eccessivo potere di mercato.

Attualmente, il più grande mercato di permessi negoziabili è quello europeo, il sistema di scambio di quote di emissione dell’UE (ETS UE), che regola il 40% delle emissioni del continente (principalmente derivanti da grandi impianti di produzione energetica e compagnie aeree). Istituito del 2005, prevedeva uno sviluppo in 4 fasi: siamo appena entrati nell’ultima fase e dal 2020 in poi i permessi di questo mercato cominceranno a calare del 2.2% ogni anno, per raggiungere gli obiettivi dell’European Green Deal.


Accordi volontari e strumenti informativi

Gli strumenti illustrati fino ad ora hanno tutti carattere vincolante: se non vengono rispettati si va incontro a sanzioni e multe. Ci sono però accordi e strumenti non coercitivi ma che possono comunque avere un certo livello di efficacia. Gli accordi volontari, per esempio, sono accordi tra governo e privati, o tra privati e privati, per raggiungere obiettivi comuni ma che non portano a sanzioni nel caso in cui non fossero rispettati. In Giappone, per esempio, questa pratica è particolarmente sviluppata, dove, in seguito al protocollo di Kyoto, le associazioni industriali che producono l’80% delle emissioni hanno stipulato accordi volontari risultati particolarmente efficaci nello scambio di buone pratiche e innovazioni tecnologiche.

Anche gli strumenti informativi non richiedono un limite obbligatorio delle emissioni ma possono essere molto impattanti sulle scelte di consumo: l'imposizione di etichette che indichino i prodotti dannosi per il clima, la pubblicazione obbligatoria dei bilanci ambientali delle aziende e le campagne di sensibilizzazione ne sono alcuni esempi. L’obiettivo è quello di dare al consumatore e ai produttori gli strumenti per saper scegliere e agire per ridurre l’impatto sul clima. Strumenti molto efficaci nel fare questo sono i carbon footprint calculators, sistemi che permettono di capire intuitivamente quanto le nostre azioni quotidiane personali impattino sul pianeta.


Accordi internazionali

Tutte queste politiche possono essere implementate a livello locale, nazionale o internazionale. Tornando al discorso iniziale, i responsabili dei cambiamenti climatici sono tanti e hanno responsabilità diverse e capacità differenti. Common but differentiated responsibility: così viene definita la situazione dalla conferenza di Rio. Inoltre, l’applicazione di politiche in un certo paese e non negli altri pone il paese ambientalmente consapevole in una situazione di svantaggio, poiché si trova a pagare più tasse o investire di più in ricerca rispetto agli altri. Un altro motivo per il quale il solo impegno di alcuni paesi ha poco senso è il rischio di offshoring: per raggiungere gli obiettivi nazionali stringenti, alcune industrie emettitrici spostano le fasi in cui vengono prodotte la maggior parte delle emissioni fuori dai confini nazionali, in paesi con regole meno stringenti (come la Cina, anche per questo motivo il primo emettitore mondiale)

Proprio per distribuire il più equamente possibile le incombenze per la soluzione del problema climatico esistono gli accordi internazionali.

Questi accordi sono più o meno efficaci a seconda del compromesso che trovano tra partecipazione (quanti paesi firmano l’accordo), ambizione (quanto elevati sono gli obiettivi che l’accordo pone) e osservanza (quanto questi obiettivi riescono ad essere rispettati e quanto efficaci sono i meccanismi di controllo).

L’accordo di Parigi, per esempio, ha un alto livello di partecipazione, ambizioni modulabili (ogni stato pone i suoi obiettivi) ma alte a livello globale e un grado di controllo medio basso.

Le politiche di estrema destra e la tendenza all’aumento degli autoritarismi dell’ultimo periodo possono costituire un pericolo per questo tipo di strumento, poiché tendono ad essere ostili alla cooperazione e alle istituzioni internazionali. Nonostante queste tendenze, però, sembra che stia aumentando la credenza che una svolta verso la sostenibilità ambientale internazionale possa portare a incentivi economici ed evitare crisi future.



Referenze


IPCC (2007) AR4 Climate Change 2007, Mitigation of Climate Change: Policies, Instruments and Co-operative Arrangements.


IPCC (2014) titolo, AR5 Climate Change 2014: Mitigation of Climate Change, Mitigation of Climate Change: Summary for Policymakers. https://www.ipcc.ch/report/ar5/wg3/


Taylor, Michael (2020) Energy Subsidies: Evolution in the Global Energy Transformation to 2050, IRENA, Abu Dhabi.


Jordaan et al. (2017) The role of energy technology innovation in reducing greenhouse gas emissions: a case study of Canada, Renewable and Sustainable Energy Reviews.


Luomi (2020) Global Climate Change Governance: The search for effectiveness and universality, IISD


Torstad (2020) Participation, Ambition and Compliance: can the Paris Agreement solve the Effectiveness Trilemma? Environmental Politics.


Wakabayashi, Arimura (2015) Voluntary agreements to encourage proactive firm action against climate change: an empirical study of industry associations’ voluntary action plans in Japan. Journal of Cleaner Production.


World Bank (2020) Carbon Pricing Leadership Report 2019/2020. World Bank. Washington, DC.



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