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Immagine del redattoreGianmarco Italia

ESISTE UN LEGAME TRA CAMBIAMENTO CLIMATICO E CONFLITTI?

Prevenire, mitigare ed arginare gli effetti del cambiamento climatico è la sfida più impellente di questo secolo. L’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPPP) stima che un innalzamento della temperatura globale oltre la soglia sancita dagli Accordi di Parigi entro fine secolo (più di 1,5° C rispetto ai livelli preindustriali) porterebbe ad un sensibile incremento dei disastri naturali registrati negli ultimi anni: siccità e desertificazioni, alluvioni e scioglimenti dei ghiacci. Ciò incrinerebbe in maniera irreversibile l’equilibrio ecosistemico del pianeta. Allargando poi lo spettro alle trasformazioni sociali, parte dell’eccezionalità del cambiamento climatico deriva dalla sua capacità di manipolare contesti già esistenti, aggiungendo ulteriori livelli di complessità alla risoluzione dei problemi di una comunità ed alterando gli incentivi degli attori politici e sociali che vi operano.


Ad esempio, la progressiva desertificazione delle terre coltivabili danneggia le comunità rurali che fanno di agricoltura e allevamento la propria fonte di sussistenza principale, inducendo migrazioni forzate, tensioni sociali e competizione serrata per le risorse e ciò, giocoforza, apre nuove finestre di opportunità per gli imprenditori della violenza e le organizzazioni terroristiche.


A tal proposito, già nel 2008, l’Unione Europea classificava il cambiamento climatico come “moltiplicatore di minacce” in un report intitolato “Climate Change and International Security(i), alludendo alle sue capacità di acuire i fattori di conflitto e provocare instabilità in contesti segnati da vulnerabilità economica, disgregazione sociale e scarsa legittimazione delle istituzioni. In effetti, dopo anni di dibattiti polarizzati sul tema, la maggioranza della comunità scientifica non considera più il cambiamento climatico come fattore autonomo in grado di innescare conflitti, inserendolo invece tra le concause che, in presenza di altri fattori destabilizzanti, ne aumentano la probabilità (ii). Per assistere al funzionamento di questa mediazione indiretta non è necessario immaginare un futuro lontano; prendendo in prestito una formula coniata dall’ex Vicesegretario dell’ONU, Jan Egeland, è infatti sufficiente analizzare ciò che succede nel ground zero del cambiamento climatico terrestre: il Sahel. (iii)


Il Sahel è una fascia di territorio dell’Africa sub-sahariana che negli ultimi anni ha assunto una certa centralità geopolitica. Tra le altre cose, è un’area fortemente instabile, attraversata da molteplici linee di divisione etniche, culturali e religiose, in cui dinamiche di conflitto regionali interagiscono con tensioni locali e fenomeni d’impatto transnazionale, quali radicalizzazione e flussi migratori. (iv)


Gli Stati che ne fanno parte sono in coda all’Indice di Sviluppo Umano (ISU) dell’ONU, distinguendosi per gli elevatissimi tassi di mortalità infantile, la difficoltà d’accesso all’istruzione ed il ricorso ad un’economia di pura sussistenza. Al contempo il Sahel è un banco di prova per comprendere gli effetti del cambiamento climatico. Le temperature crescono ad una velocità di 1.5 volte maggiore rispetto alla media globale e ciò si traduce in crisi idriche e disastri ambientali più frequenti, tra cui periodi di siccità ed alluvioni, che annientano le speranze di sussistenza dei 50 milioni di abitanti che dipendono dall’allevamento del bestiame. Tutto ciò segna l’esperienza di una zona del mondo in cui la pressione demografica impenna, la desertificazione avanza e che a seguito della carestia del 2012 conta 33 milioni di persone a rischio alimentare. (v)


In sostanza, nella regione del Sahel coesistono sia i classici fattori scatenanti del conflitto (tensioni etniche e sociali, violenza diffusa, scarsa legittimità delle istituzioni) che il moltiplicatore di minacce ascrivibile agli effetti del cambiamento climatico.

Gli studi empirici che ne testano il rapporto indicano che la correlazione tra cambiamento climatico e conflitto è positiva, ma non lineare e che l’equazione che porta a quest’ultimo risulta da una combinazione di variabili su cui il primo influisce per via mediata (vi). Secondo l’International Crisis Group (ICG), questa chiave interpretativa permette di esaminare i fattori che hanno portato al conflitto tra i pastori nomadi di etnia Fulani e gli agricoltori stanziali di etnia Dogon o Berbera, deflagrato in Mali nel 2012 e tutt’ora in corso (vii). Nel caso specifico, le siccità periodiche degli anni 70’ e 80’ hanno minato l’equilibrio del sistema agropastorale maliano, fornendo un vantaggio competitivo ai sedentari, non dediti alla transumanza, e quindi meno vulnerabili alle intemperanze del clima. Negli anni, gli agricoltori stanziali hanno investito il surplus in bestiame ed assoggettato i nomadi Fulani, accrescendone il senso di marginalizzazione e rivalsa e contribuendo a serrare i ranghi etnici.

In sostanza, gli effetti del cambiamento climatico hanno alterato i rapporti di forza, spogliando gli accordi consuetudinari tra agricoltori e nomadi della loro efficacia normativa (viii).

Tuttavia, se nel caso maliano il clima permea un contesto favorevole al conflitto, a scatenare quest'ultimo è l’interazione di scelte su più livelli. A livello nazionale l’agenda politica del governo che da inizio secolo premia i sedentari e l’assenza di regolamentazioni nazionali condivise per l’accesso alle risorse; a livello locale l’utilizzo a proprio vantaggio dei rinnovati rapporti di forza da parte dei sedentari. Una simile considerazione assume rilevanza alla luce della recente pubblicazione di Brottem e McDonnel, ricercatori del Search for Common Ground, che incrociando i risultati di varie ricerche sulla relazione cambiamento climatico-conflitto in Sahel concludono che le pressioni climatiche e la scarsità di risorse non sono la causa primaria dell’uso della forza nella regione (ix). Nei contesti statali caratterizzati da capacità ridotta delle autorità di soddisfare i bisogni della popolazione, povertà endemica e marginalizzazione sociale, oltre che a preparare terreno fertile per l’escalation della violenza etnica, il cambiamento climatico favorisce indirettamente l’insediamento di gruppi paramilitari e terroristici.

In virtù della loro fragilità, gli Stati sono esposti al c.d violence-climate change feedback loop: le autorità statali non riescono a proteggere i propri cittadini dalle conseguenze del cambiamento climatico, generando tensioni e violenze che compromettono ancor di più la loro capacità di farvi fronte (x).

Piegando a proprio vantaggio il vuoto di potere e legittimità, i nuclei terroristici vengono a capo di questo circolo vizioso e propongono un sistema alternativo alle istituzioni governative. La rappresentanza degli interessi dei Fulani, la regolamentazione dell'accesso alle risorse idriche, la risoluzione dei conflitti relativi all'accesso alla terra e la gestione del mercato del grano sono esempi di come l’infiltrazione terroristica riesca a colmare i solchi scavati dal cambiamento climatico.


Proiettando lo sguardo al futuro, entrare nella complessità del rapporto tra cambiamento climatico e conflitti non è un mero esercizio logico, ma un'esigenza che la politica dovrebbe gestire con oculatezza.



Considerando che la risoluzione di un problema non può prescindere dalla sua comprensione, ogni tentativo di ridurre conseguenze climatiche e conflitto ad un semplice rapporto di causa-effetto, tralasciando i fattori endemici, rischia di condurre a scelte politiche frammentarie.

Referenze


L'immagine di copertina è gentile cortesia di NinjaMonkeyStudio ©

(i) Paper Strategico "Climate Change and International Security", rilasciato dall'Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune e dalla Commissione Europea, 2008. Disponibile al link: https://www.consilium.europa.eu/media/30862/en_clim_change_low.pdf (ii) Report "Climate change, conflict and fragility" pubblicato dall' Overseas Development Insitute (ODI) a cura di Peters et.al, 2020. Disponibile al link: odi_climate_change_conflict_and_fragility_0.pdf (iii) Articolo "Sahel stands at ‘ground zero’ of climate change, top UN adviser warns", pubblicato da UN News, 2008. (iv) Dossier "Crisis to Watch 2020: Sahel", pubblicato da ISPI a cura di Strazzari e Ranieri, 2019. Disponibile al link: Crisis to watch 2020: Il Sahel (ispionline.it) (v) Articolo "The Sahel is engulfed by violence. Climate change, food insecurity and extremists are largely to blame", pubblicato dal World Economic Forum (WEF), a cura di Muggah e Luengo Cabrera, 2019. (vi) Paper "Climate Change, Livelihoods, and Conflict in the Sahel", pubblicato sul Georgetown Journal of International Affairs, a cura di Aly Mbaye, 2020. Disponibile al link: Project MUSE - Climate Change, Livelihoods, and Conflict in the Sahel (jhu.edu) (vii) Articolo "Role of climate change in Central Sahel’s conflicts: not so clear", pubblicato dall'International Crisis Group a cura di Yahaya Ibrahim, 2020

(viii) Briefing "The Central Sahel: Scene of New Climate Wars?", pubblicato dall'International Crisis Group, 2020. Disponibile al link: The Central Sahel: Scene of New Climate Wars? | Crisis Group (ix) Report "Pastoralism and Conflict in the Sudano-Sahel: A Review of the Literature", pubblicato da Search for Common Ground a cura di Brottem e McDonnel, 2020. Disponibile al link: Pastoralism_and_Conflict_in_the_Sudano-Sahel_Jul_2020.pdf (sfcg.org) (x) Policy Brief ""Climate change and state fragility in the Sahel", pubblicato dal Think Tank Fride, a cura di Crawford, 2015"


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