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I poveri sono pazzi

“I poveri sono pazzi, i ricchi eccentrici”, recita un detto americano che evidenzia come una stessa azione compiuta da membri di classi diverse assuma significati diversi. Noi non sappiamo se effettivamente i ricchi siano particolarmente eccentrici, ma abbiamo la certezza che i poveri sono pazzi, o perlomeno più pazzi. Per capire perché, partiamo da lontano, dalla definizione di salute mentale. La salute mentale non è l’assenza di disturbo mentale ma uno “stato di benessere in cui ogni individuo può realizzare il suo potenziale, affrontare il normale stress della vita, lavorare in maniera produttiva e fruttuosa e apportare un contributo alla propria comunità”, scrive l’Organizzazione Mondiale della Sanità (1). Questa distinzione fondamentale chiarisce che il benessere mentale non è quindi l’opposto di malattia mentale. Cosa c’entra questa nozione con la rubrica di Dispari sulla povertà? Posizionandoci un po’ alla periferia del tema, vogliamo guardare a una correlazione particolare, quella tra povertà e disturbi mentali.


Oltre il 70% degli studi in materia ha confermato che ad un basso status socioeconomico (SES) è associata una maggior incidenza di disturbi mentali (2). Fanno parte di quest’ultima categoria ansia e depressione, classificate come “disturbi mentali comuni”, schizofrenia e disturbo bipolare, che sono “disturbi mentali gravi”, ma anche l’uso di alcol e droghe e demenza. Sommati insieme i casi, di cui i depressi sono la gran parte, soffrono di queste malattie il 12% dei malati totali a livello globale (3). La loro distribuzione è sbilanciata e pesa di più su chi ha un basso SES. Infatti, i disturbi mentali comuni sono circa due volte più frequenti tra i più indigenti e la schizofrenia, che è un disturbo mentale grave, lo è addirittura otto volte (4). Questa evidenza ci pone davanti a un problema che non è soltanto medico ma ha un’importante componente politica, vale a dire l’esistenza di un’influenza del contesto sociale sullo sviluppo di disturbi mentali. 


Nella sua analisi sui determinanti sociali della salute mentale (5), l’OMS evidenzia come lo svantaggio socioeconomico esponga a esperienze stressanti più frequenti e più lunghe, che collaborano in maniera significativa allo sviluppo di disturbi mentali e che colpiscono maggiormente proprio laddove si hanno meno risorse per mitigarne gli effetti dannosi. (Lo stress è riconosciuto da molti esperti come fattore di rischio ambientale che favorisce lo sviluppo di disturbi mentali.) L’esposizione a condizioni sfavorevoli è un processo che percorre tutto l’arco della vita, caratterizzato da un accumulazione dello svantaggio. Infatti, sin dal periodo prenatale, particolarmente sensibile per lo sviluppo fisico, mentale e cognitivo, gli individui con SES basso hanno più probabilità di trovarsi in cattive condizioni ambientali (si pensi a malnutrizione, fumo, alcol, droghe, stress, lavoro fisico). Particolarmente influente è la depressione materna che raddoppia il rischio di essere sottopeso e avere disturbi della crescita, entrambi fattori di rischio per lo sviluppo di depressione in futuro.


Fin qua però abbiamo escluso dal discorso una questione fondamentale, quella relativa alla direzione della relazione. Gli studi forniscono evidenza della correlazione, ma questo significa che nascere povero rende più probabile lo sviluppo di disturbi mentali? O forse che i malati mentali cadono verso il basso della piramide sociale? Nel primo caso si tratta della cosiddetta ipotesi di “causazione sociale”, che “conferisce un ruolo etiologico fondamentale ai fattori sociali ed ambientali”. Nel secondo siamo di fronte all’ipotesi della “selezione sociale”, che “privilegia l’origine somatica delle malattie mentali [...] ed attribuisce il riscontro delle maggior frequenze di infermità psichica negli strati economici più disagiati al moto verso il basso e alla deriva, conseguenza delle limitate capacità di adattamento sociale imposte agli individui dalla patologia psichica” (4).


Molti studi hanno cercato di dichiarare la superiorità di un’ipotesi sull’altra ma con scarsi risultati (6). L’evidenza suggerisce che le due ipotesi devono convivere e possono essere adottate per spiegare adeguatamente fenomeni diversi (4). Ad esempio, per quanto riguarda la schizofrenia, la “selezione sociale” sembra più calzante. Diverso è invece il caso della depressione - che con l’ansia colpisce il 7% degli italiani con più di quindici anni - per cui la “causazione sociale” ha più valore, facendo sì che al contesto sociale venga dato un ruolo rilevante nell’eziologia della malattia. In generale, le due ipotesi permettono di tracciare due vettori attivi contemporaneamente, che fanno della relazione tra povertà e disturbi mentali una relazione biunivoca, come scrive l’OMS (5).


Come dicevamo, porre l’attenzione sui determinanti sociali dei disturbi sociali ci pone di fronte a un problema che non si limita all’aspetto medico-scientifico, ma è anche politico. Il primo passo da fare in tal senso è quindi elaborare una riflessione eziologica che comprenda la dimensione sociale, allargando il campo delle cause della malattia oltre l’individuo, la sua genetica e il suo fenotipo. Ma, come sostiene Saraceno – uno dei più importanti psichiatri al mondo, formatosi con Basaglia e a lungo direttore del programma sulla salute mentale dell’OMS – ci si deve spingere oltre, introducendo il contesto sociale anche nella fase dell’intervento di salute mentale, nella cura. Sono questi i presupposti per passare dal paradigma biomedico, che è lineare, individualistico e non contestuale, al paradigma biopsicosociale. Questo cambio di prospettiva porterebbe la comunità all’interno del discorso sulla sanità ma metterebbe anche in connessione la sanità con le dinamiche politiche generali, su tutte quelle economiche, che determinano le condizioni materiali in cui vivono gli individui, quindi anche quelle in cui si ammalano.


Elaborando questo discorso, Saraceno costruisce la distinzione tra il paradigma biomedico e quello della sanità pubblica. Superando l’ottica ristretta del primo, il secondo prende in analisi la complessità di una malattia, evidenziando come la comunità sia parte delle cause ma soprattutto partecipante alla cura di una malattia. Il paradigma della sanità pubblica fa sorgere punti di domanda che si spingono ben oltre la medicina, che arrivano a toccare, ad esempio, anche le leggi che regolano la previdenza sociale e il mercato del lavoro, la scuola, che agiscano su tutto il corso della vita.


Andando verso la conclusione vogliamo fare due passi indietro e prendere in analisi l’immagine più ampia che si va delineando. Se è vero che la psichiatria sta cercando ora di dare credito a approcci più olistici che prendano in considerazioni il contesto sociale, le scienze sociali da tempo si sono soffermate su come il sistema socioeconomico influisca sulla salute mentale di chi lo vive. Di poche settimane fa è la pubblicazione nella raccolta colletta ed Disagiotopia del breve saggio di Federico Chicchi intitolato “Contro la società della prestazione. Per una sintomatologia del capitalismo contemporaneo” (7). Partendo dalla nozione di società della prestazione, Chicchi evidenzia come l’imprenditorializzazione abbia coinvolto anche gli individui stessi che ora guardano a sé stessi come si guarda a “un capitale fisso da valorizzare, un’impresa su cui investire continuamente in termini di strategia aziendale e management del sé” (Chicchi, 2020, p. 75). Il culto della performance si afferma portando con sé la fragilizzazione dei legami sociali e la minaccia del fallimento, eventualità di fronte a cui l’individuo è solo e incapace di organizzare una resistenza. Queste sono le condizioni che permettono la rapidissima diffusione di sintomi depressivi, accompagnati da ansia, attacchi di panico, insonnia, astenia. La tesi di Chicchi è che la diffusione dei sintomi depressivi si fa tragicamente più solida con l’affermarsi del capitalismo contemporaneo e la sua espansione onnipervasiva. 


I poveri sono più pazzi. Embè? Questo è chiaramente un problema di natura politica, ma è un problema che la politica intende affrontare? In che misura? Le linee guida dell’OMS mirate alla risoluzione delle disuguaglianze sono chiare. Le policy devono lavorare sull’intero arco di vita e devono essere proporzionate allo svantaggio, in modo tale da appiattire l’iniqua distribuzione dei disturbi mentali. Resta chiaro però che, come evidenzia Chicchi, l’OMS non pretende di cambiare il capitalismo contemporaneo, anzi. Si pensi alla stessa definizione di salute mentale con cui abbiamo aperto questo articolo secondo cui la sanità corrisponde, in altri termini, all’essere capaci di compiere una prestazione. È questa la linea da seguire? Di fronte al problema così posto non c'è una risposta corretta scientificamente. La risposta dipende dalle opinioni che si ha rispetto al movimento del mondo nel lungo periodo. Sta andando bene? E più specificamente, il capitalismo ci piace? Fa più bene che male? Che effetto ha sulla salute mentale di chi lo vive? Queste sono domande a cui nessuna scienza dura può dare risposta. Sono quesiti che non si soddisfano senza giudizi di valore. Insomma, sono questioni politiche, conflittuali. E allora, accettando la parzialità della soluzione, ben venga il conflitto. 



Note

  1. World Health Organization (WHO). (2013). Mental Health Action Plan 2013-2020.

  2. Lund, C. et al. (2010). Poverty and common mental disorders in low and middle income countries: A systematic review. Social Science & Medicine, 71, 517-28.

  3. Patel, V. et al. (2010). Mental disorders: equity and social determinants. In: Blas, E., Kurup, AS. (eds.). Equity, social determinants and public health programmes. Geneva: World Health Organization, 115-34.

  4. Saraceno, B. (n.d.). Correlazione fra povertà e disturbi mentali e sue implicazioni su esiti ed erogazione della cura. Centro Studi Sofferenza Urbana [sito web], http://www.souqonline.it/home2_2.asp?idpadre=2278&idtesto=2289#

  5. World Health Organisation (WHO) e Calouste Gulbenkian Foundation. (2014). Social determinants of mental health.

  6. Saraceno, B., Barbui, C. (1997). Poverty and Mental Illness. The Canadian Journal of Psychiatry, 42, 285-90.

  7. Chicchi, F. (2020). Contro la società della prestazione. Per una sintomatologia del capitalismo contemporaneo. In Andreola, F. (ed.) Disagiotopia. Malessere, precarietà ed esclusione nell’era del tardo capitalismo. Roma: D Editore, 58-89.

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