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La povertà fa schifo

Aggiornamento: 21 gen 2021

La povertà fa schifo. Su questo non ha dubbi nessuno, se non qualche reazionario che si stava meglio quando. La povertà fa schifo nelle baraccopoli, nei grattacieli, nelle scuole di periferia. La povertà fa paura e tutti scappano per non trovarsi tra le sue braccia lunghe. Ma non c’è bisogno di essere intellettualmente raffinatissimi per vedere che il modo in cui la paura della povertà ci muove è molteplice. Non scappano alla stessa maniera un keniota nel deserto, un calabrese a Milano e una trentacinquenne in tailleur.


Guardando al lungo periodo, nel mondo la situazione è migliorata. I dati di World Bank, nonostante le inevitabili difficoltà metodologiche, mostrano chiaramente che sempre meno persone sono povere. La quota di coloro che vivono al di sotto della soglia di $1.90 al giorno è scesa dal 42,5% del 1981 al 9,2% del 2017. Spiegare che cosa sia dietro a questo fenomeno è un’impresa titanica che deve fare i conti con l’evoluzione della finanza pubblica, le ragioni politiche, le pressioni internazionali e circa tutto quanto di politico c’è al mondo (includendo nel politico anche l’economico). Qui voglio porre l’attenzione su un aspetto preciso. Il fatto che questi cambiamenti strutturali, ampi archi che definiscono l’identità delle nostre società, possono essere interpretati, seppur entro certi limiti, come il risultato dell’evoluzione della normatività.


È normativa un’affermazione sulla realtà che definisce come la realtà dovrebbe essere, in contrapposizione alla descrizione di come è. Ad esempio, la definizione di una morale è normativa. La descrizione di un tavolo, invece, è descrittiva. Spesso nel dibattito politico, elementi descrittivi e normativi si intrecciano pericolosamente, rendendo nebulosi i discorsi, mal fondate le posizioni. Più o meno consapevolmente, la descrizione della realtà e la sua critica normativa vengono confusi in un unico cocktail narrativo convincente, politicamente profittevole. Ma non è questo il nostro punto. Vogliamo invece porre l’accento sul fatto che la normatività è linfa della politica. La normatività, intesa come condizione immaginata ritenuta desiderabile perché giusta, efficiente, morale - o combinazioni di questi elementi - traina l’azione politica. Ma nel tempo la normatività cambia. Ad esempio, la definizione di ciò che è giusto evolve e se a metà del XIX secolo in Inghilterra era desiderabile che lavorassero in miniera solo i bambini sopra i 12 anni, oggi qualcuno ambisce al reddito universale, condizione immaginata (e desiderata) che fino a pochi decenni fa sarebbe stata impensabile. Questo cambiamento della normatività è luce che guida le scelte politiche.


Per chiarire il nostro punto guardiamo all’espansione della spesa pubblica come percentuale del PIL dei paesi del G7 (vedi grafico in basso). Ignorando i picchi negli anni delle due Guerre Mondiali, possiamo vedere che le spese dei governi sono passate da un massimo appena oltre il 15% nel 1880 (Francia e Italia) a un minimo oltre il 40% nel 2011 (Giappone), con il caso francese che sfiora il 60% del PIL. Di questa espansione tante sono le spiegazioni possibili e pensare di rintracciare necessità in questa complessità è una pretesa esagerata. Possiamo però cercare di interpretare l’espansione della spesa pubblica come una risposta al cambiare delle condizioni immaginate desiderate, cambiamento che è un progressivo allargamento dell’insieme di beni e servizi (condizione) desiderati dall’elettore mediano - ago della bilancia che muove le dinamiche politiche. Ora, quello che mi interessa fare è mettere il fuoco su un aspetto: non siamo al punto d’arrivo. Con buona pace di Fukuyama, la storia non è finita. Quali saranno i prossimi elementi che caratterizzeranno le preferenze dell’elettore mediano? Il sipario non è ancora calato e, col sospetto che non calerà mai, guardiamo sul palco muoversi gli attori con sempre nuove pretese, giustificate da sempre nuove normatività. Il mondo cambia e i dover essere cambiano. Sensibilità nuove portano idee nuove, nate dal rimescolarsi di quelle vecchie. (Su questo non so se la legge di conservazione della massa di Lavoisier sia valida.)

Un’idea, o meglio, una sensibilità nuova merita attenzione: quella relativa alla posizionalità. Il mio punto è che possiamo pensare che dal dibattito sulla posizionalità emergano ambizioni politiche capaci di far colpo sull’elettore mediano e quindi influenzare le scelte politiche. Per capire cos’è la posizionalità dobbiamo capire cos’è un bene posizionale. È posizionale un bene il cui valore dipende dalla sua distribuzione in società. Ad esempio, una borsa di Hermès non costa migliaia di euro (o milioni, la brillantissima borsa in nella foto in basso ne costa 2) solo per il costo di materiali, manodopera e trasporto ma anche perché ce n’è un’offerta scarsa per cui sono pochi i possessori della borsa. Dalla sua scarsità deriva il fatto che il possesso dei borsa conferisce status sociale. Facilmente si capisce come i beni di lusso siano posizionali. Ma possono essere considerati posizionali anche altri beni, come l’istruzione. Guardando ai titoli di studio nel mercato del lavoro, questi si comportano come un bene posizionale. Per un lavoratore, il fatto di possedere un titolo di studi come il dottorato non vale solo perché indica che si hanno certe capacità intellettuali e conoscenze ma anche (qualcuno pensa soprattutto) perché ce l’hanno in pochi. Il dottorato fornisce un vantaggio relativo che danneggia, limitandone il valore sul mercato del lavoro, chi non ce l’ha.

Che problema c’è con la posizionalità? Due problemi possono essere individuati. Primo, i beni posizionali, garantendo un vantaggio a chi li possiede, danneggiano chi non li ha. Data la loro scarsità, è impossibile distribuirli equamente se non svalutandoli. Lo svantaggio che determinano si presenta in tante forme, tra cui l’invidia per cui chi non può permettersi un certo bene, quindi un certo status, soffre. È questa sofferenza legittima? L’invidia può sostanziare una rivendicazione politica? Non lo so. Sono questioni da risolvere. Secondo, l’acquisizione di beni posizionali può essere considerata dannosa a livello collettivo perché determina uno spreco di risorse. Come in una corsa agli armamenti due nazioni spendono sempre più per segnalare la loro relativa superiorità sperperando risorse collettive, così gli individui che comprano beni posizionali investono denaro che non porta alcun beneficio a livello collettivo.


Ma questi sono davvero problemi? Forse a livello individuale lo si può pensare. Ma a livello aggregato, la situazione è più complessa e la verità è tutt’altro che evidente. In risposta ai due problemi infatti si può ipotizzare che laddove ci sia chi soffre e laddove ci sia un apparente spreco infruttuoso, ci sono anche benefici collettivi - forse maggiori dei danni. Immaginando che in un gruppo di amici il signor A scelga di acquistare un computer di un certo brand (che per comodità chiameremo Mela, abbreviato in M). Il computer M è particolarmente costoso e garantisce a chi lo possiede un certo status (per facilitarvi lo sforzo d’immaginazione suggerisco di pensare che lo status sia quello di designer, con un cuffietta in testa, un caffè al caramello in mano e magari anche i baffi). Senza sforzo ci rendiamo conto che B e C, colleghi e migliori amici di A, saranno invidiosi e soffriranno un po’. Ma il ragionamento non va fermato qui. Infatti, l'invidioso e sofferente B decide di lavorare con più impegno e qualche ora in più per potersi permettere il computer Mela. Così aumenta la sua produttività e le vendite della sua azienda. Alla fine riesce a comprarsi anche lui M. Alla crescita della domanda di Mela, l’azienda produttrice di computer Finestra (F) decide di investire in ricerca e sviluppo per migliorare la sua offerta. L'nivestimento in R&S frutta e così F mette sul mercato un prodotto che convince C, che risparmia un po’ e si compra il nuovo modello di F. Ora C non è più uno sfigato, finalmente(!). Tutta questa storia per dire che capire a livello politico se il mercato posizionale faccia bene o male è difficile e non lo ha mai fatto con solidità scientifica nessuno. Il dubbio è che sia impossibile farlo per la quantità di variabili da tenere in considerazione, a partire dal fatto che nessun bene è inequivocabilmente un bene posizionale. (Si può impotizzare che qualunque bene sia posizionale in un certo grado. Ma qual è il grado? Non cambierebbe di contesto in contesto?).


A partire dagli anni '50, il dibattito sui beni posizionali si è fatto ampio portando ad confrontarsi col tema economisti, sociologi, filosofi e psicologi (per farsi un'idea si guardi la bibliografia). Molti di quelli che ritengono che l'economia posizionale sia generalmente dannosa hanno proposto politiche per rimediare ai danni. Ad esempio, è stato proposto di applicare un meccanismo di tassazione simile a quello diffuso laddove ci siano aziende che inquinano. In quel caso, l'azienda produce esternalità negative - cioè un effetto dannoso su altri agenti, al di fuori delle transazioni commerciali - che è l'inquinamento. Quel che fa lo Stato è tassare queste esternalità (per capire meglio la politica ambientale, ne abbiamo scritto qui). Rispetto ai beni posizionali, la proposta è quella di considerare gli effetti legati alle loro transazioni come esternalità negative, quindi imporre tasse su questi beni, internalizzando i costi sociali dello scambio.


La posizionalità è il futuro delle finanze pubbliche? Non lo so. Però certamente mette in campo elementi importanti che permettono di illuminare una via di una nuova normatività. I beni posizionali esistono e il loro studio apre la possibilità di guardare allo scambio economico superando la prospettiva mainstream individuale. In questo senso, la sensibilità posizionale fornisce gli strumenti per comprendere più a fondo - o perlomeno da una prospettiva nuova - le dinamiche economiche contemporanee e indica nuovi spazi di policy-making.


Bibliografia


Frank, R. (2005). Positional Externalities Cause Large and Preventable Welfare Losses. The American Economic Review, Vol. 95, No. 2, 137-141.


Hirsch, F. (1976) [1977]. Social Limits to Growth. London: Routledge & Kegan Paul Ltd.


Veblen, T. (1899) [2007]. The Theory of the Leisure Class. New York: Oxford University Press


Ventura, R. A. (2017). Teoria della classe disagiata. Roma: Minimum Fax.

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