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MILANO SUSHI & CLOCHARD

Oggi un buon settanta percento delle strade porta a Milano, la city d’Italia. Lanomi è la madonnina, i piccioni, i turisti. Il sushi, la trap, i suv da guidare in camicia bianca e scarpe da barca. Ma anche la Scala, Manzoni, Philippe Daverio. La metropolitana, le luci, le vetrine e, proprio lì sotto, appuntiti, i dissuasori in acciaio. Milano è la città più vivibile d’Italia, secondo il Sole 24 Ore, perché è economicamente e culturalmente attiva, è smart, è green.


Milano è efficiente, ordinata e pulita. Pulita, o almeno questo vorrebbe essere, anche dalla visione disturbante della povertà. Perché fa schifo camminare per Corso Vittorio Emanuele II e avere della gente che ti interrompe chiedendo delle monetine oppure prendere un aperitivo sui Navigli e dover ripetutamente spiegare a chi vende le rose che lei è un’amica. Fa schifo tornare a casa e vedere quelli che dormono per strada coperti da un ombrello e fa schifo, anche se forse un po’ meno, dover ignorare i saluti di una prostituta mentre infili le chiavi nella serratura.

La bivaccofobia - paura di chi bivacca e, per esteso, dei poveri come fattore disturbante e socialmente pericoloso - curata con l’architettura ostile, fa certamente parte della nuova identità cool della city. Ma sarebbe sbagliato descrivere Milano solo in questo modo. Infatti, le appartiene anche una società civile solida dove si incontrano socialismo mite e cattolicesimo inquieto e che si attiva per rispondere ai bisogni dei suoi concittadini. Quali sono questi bisogni? Chi sono i bisognosi?


Rispondiamo a queste domande guardando all’ultimo rapporto dell’Osservatorio diocesano delle povertà e delle risorse della Caritas Ambrosiana(1), che prende in analisi i dati relativi a chi si è interfacciato con i loro centri di ascolto e i servizi diocesani nel 2018(2). Dal campione di 13.195 persone, chiaramente inferiore al totale dei bisognosi perché relativo solo a coloro che si sono interfacciati con certi servizi, è chiaro che non si può portare a termine un identikit unitario perché la popolazione dei poveri è eterogenea, frastagliata, complessa. Il campione è composto da un 37,3% di italiani, seguito da marocchini, peruviani, egiziani, ucraini, rumeni, senegalesi e persone di altri paesi. Interessante è l’età, specie se incrociata alla cittadinanza. Il cambiamento che si nota attorno al nodo dei 45 anni è spiegabile pensando a quando sono iniziati i flussi migratori e a che età avessero i primi immigrati quando sono arrivati.


Fonte dati: Caritas Ambrosiana - Osservatorio delle povertà e delle risorse.


Circa il 45% del campione è coniugato o convivente ma è incrociando lo stato civile con la cittadinanza che emerge un quadro che merita attenzioni. Infatti gli italiani sono per il 65% senza legami stabili mentre gli immigrati per il 56% hanno un legame stabile. Questo, assieme all’età, ci pone davanti all’esistenza di una popolazione povera immigrata che è ben diversa da quella italiana, a rendere impossibile ogni descrizione omogeneizzante dei poveri.


Fonte dati: Caritas Ambrosiana - Osservatorio delle povertà e delle risorse.


La condizione professionale invece non fa distinzioni di nazionalità, infatti più dei tre quarti dei poveri che rientrano nel mercato del lavoro risulta disoccupato e solo meno di un quinto ha un’occupazione regolare, indipendentemente dalla cittadinanza. Dall’altro lato però si evidenzia anche la presenza di lavoratori che, nonostante percepiscano un reddito, non riescono a guadagnare abbastanza da coprire i propri bisogni, i cosiddetti working poor. Proseguendo, vediamo che coloro che si sono rivolti ai servizi della Caritas hanno un basso livello di istruzione, infatti quasi il 60% non va oltre la licenza media. Questo dato, analizzato alla luce della forte correlazione tra titolo di studi e reddito, dà conto della fragilità della condizione socio-economica dei poveri, che non riescono ad occupare posizioni lavorative, quindi reddituali, solide.


Per quanto riguarda i bisogni, questi sono perlopiù relativi ad occupazione, reddito, problemi abitativi, problemi legati all’immigrazione, alla famiglia, dovuti alla malattia e, infine, alla necessità di una casa. Quel che però va assolutamente evidenziato è la multiproblematicità che caratterizza la condizione di povertà. A prova di questo è il fatto che le richieste specifiche fatte ai centri Caritas sono stati in media 3,7 a persona. Questa evidenza va compresa guardando al più generale trend italiano di crescente multidimensionalità della povertà e della sua cronicizzazione. Lavoro, salute, relazioni sociali sono intrecciate tanto da rendere necessario ampliare il discorso sulla povertà fino a parlare di esclusione sociale. L’esclusione sociale, fatta di esclusione dal mercato del lavoro e perdita delle reti sociali, spesso risultato di una spirale discendente in cui giocano una parte anche alcolismo e droghe, mette gli individui in una condizione di bisogno che li porta a chiedere aiuto. Condizione da cui è difficile uscire proprio perché tutte le dimensioni della povertà sono intrecciate e convivono, facendo della via verso l’autonomia un percorso complicato.


Esterno della Casa della Carità (foto di Marco Garofalo).


A Milano sono tante le associazioni che si misurano con la complessità della povertà(3). Tra queste spicca per acume e sensibilità politica la Fondazione Casa della Carità, che abbiamo potuto visitare grazie alla loro disponibilità. Fondata nel 2002 dal Cardinale Carlo Maria Martini, la Casa accoglie “gli ultimi degli ultimi”, come dicono, e li aiuta a intraprendere la strada dell'autonomia. Allo stesso tempo la Fondazione ha finalità culturali che affronta partendo dalla domanda fondamentale rispetto alla povertà, cioè quella relativa alle sue cause. Perché una persona si trova nella condizione in cui deve rivolgersi alla Casa? Quali dinamiche la spingono fino a qui?


La saggezza della Fondazione è quella di saper stare ben vicini al piano individuale e quindi attaccati alla storia delle persone che si trovano ospiti della Casa, ma allo stesso tempo alzare gli occhi e capire che c’è un contesto sociale in cui l’esclusione nasce. È quindi anche, e soprattutto, nel politico che vanno individuate le cause della sofferenza dei bisognosi. Per quanto l’esperienza della povertà sia un’esperienza perlopiù solitaria, risiedono nella società i germi che ne permettono la crescita. Da questo aspetto della Fondazione nasce il suo impegno politico e l’attività di advocacy. La Fondazione è stata infatti promotrice dell’importante campagna “Ero Straniero”(2017), per una nuova legge sull’immigrazione che superi l’approccio emergenziale, e “Prima la comunità” (2020), che promuove la creazione di spazi in cui la salute venga affrontata come un fenomeno politico, prendendone in considerazioni i determinanti sociali(4).


Mensa della Casa della Carità (foto di Marco Garofalo).


I mesi di lockdown sono stati critici per la Casa della Carità, che ha dovuto interrompere i propri servizi diurni - centro d’ascolto, ambulatorio medico e psichiatrico, docce, mensa, distribuzione abiti, sportello legale - fino a luglio e ha cercato di alleggerire la struttura spostando altrove circa la metà degli ospiti stabili. Ha dovuto anche affrontare 25 casi di positivi al Covid-19, perlopiù asintomatici, che sono stati isolati nella Casa. Vedendo la fine di quell’esperienza però, il direttore don Virginio Colmegna, citando un murales comparso ad Hong Kong durante le proteste, dichiara di non voler “tornare alla normalità, perché la normalità è il problema".


Nel solco del Laudato si’ di Papa Francesco, dalla Casa si alza una voce che, nella coscienza che “tutto è connesso”, sa promuovere contemporaneamente giustizia sociale e giustizia ambientale. Il capitalismo consumista e individualista vive della precarietà e, di fronte all’emergenza Covid-19, ha mostrato le sue debolezze, su tutte l’incapacità di rispondere alle esigenze di chi prima vi partecipava. Ora dalla Casa della Carità provengono parole importanti, sensibili e acute, che nella complessità delle situazione che affrontano, riescono a tracciare una linea da seguire. Forse è bene che Milano le ascolti.


Ospite dell'accoglienza uomini (foto di Marco Garofalo).



Note

  1. Potete scaricarlo gratuitamente dal sito della Caritas Ambrosiana, qui. Il prossimo rapporto verrà presentato il 28 ottobre.

  2. “Nel 2018 l’Osservatorio delle povertà e delle risorse di Caritas Ambrosiana ha raccolto ed elaborato i dati di 87 centri di ascolto e 3 servizi diocesani: il SAM, per l’accoglienza delle persone senza dimora, il SAI, che si rivolge alle persone immigrate, e il SILOE, nato per sostenere le persone in difficoltà socio-economiche-lavorative” (pag. 21).

  3. Oltre alla Caritas Ambrosiana, svolgono un ruolo fondamentale anche l’Opera San Francesco per i Poveri, l’Opera Cardinal Ferrari, l’onlus Pane Quotidiano e la divisione assistenza sanitaria dell’Associazione San Fedele.

  4. Abbiamo parlato di determinanti sociali nella nostra analisi della relazione tra povertà e disturbi mentali che potete trovare qui.

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