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Immagine del redattoreNicola Farina

La de-globalizzazione. Ma i lavoratori del sud-est asiatico?

Aggiornamento: 17 mag 2020

Quante volte si legge “Made in China” sul retro di prodotti elettronici o “Made in Bangladesh” sulle etichette di vestiti. Grazie alla globalizzazione, le multinazionali del settore elettronico e tessile hanno iniziato a fabbricare i loro prodotti, o parte di questi, nei paesi del sud-est asiatico. Le condizioni dei lavoratori sono state spesso criticate da ONG internazionali e definite come non etiche. L’avvento del Coronavirus ha fatto calare i consumi italiani e mondiali di questi prodotti. Quali sono quindi le attuali condizioni dei lavoratori, ora che le produzioni non sono più richieste?


Globalizzazione e de-globalizzazione

Le multinazionali del settore tessile ed elettronico hanno sviluppato forti relazioni commerciali in paesi del sud-est asiatico [i]. In Cina, Bangladesh e paesi dell’ASEAN, organizzazione commerciale che comprende nazioni quali Vietnam, Indonesia e Cambogia, si producono e compongono beni per aziende come Zara, H&M, Apple e Huawei. Questa area geografica è diventata colonna portante della globalizzazione grazie alla presenza di manodopera a basso costo, istituzioni politiche stabili e inadeguata regolamentazione in questioni ambientali e di sicurezza dei lavoratori.

ASEAN: Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico

La diffusione della pandemia del Coronavirus ha causato un forte calo degli acquisti [ii] di questi beni. Ciò ha portato ad un’interruzione degli scambi commerciali [iii] internazionali e della dipendenza reciproca fra paesi sviluppati e in via di sviluppo. La catena di ideazione del prodotto, la sua produzione, trasporto ed infine vendita si è fermata. In parole semplici: de-globalizzazione.


Le condizioni dei lavoratori

Questo processo ha particolarmente influenzato il sud-est asiatico e i lavoratori in queste filiere. ONG come Amnesty [iv] o Human Rights Watch [v] hanno spesso criticato le multinazionali del settore tessile e informatico per le condizioni fragili imposte ai loro lavoratori. Per esempio, all’interno delle fabbriche dove si producono gli iPhone sono state denunciati di orari di lavoro estenuanti, sottopagati, nessuna protezione sociale e condizioni lavorative che inducono alla malnutrizione e malattia. Il numero di suicidi [vi] riportato ogni anno è alto.


La crisi del Coronavirus [vii] ha estremizzato le fragilità del sistema, procurando ancora maggiore insicurezza e povertà. Senza più rifornimenti di prodotti grezzi e commissioni, le fabbriche del settore tessile hanno chiuso. In Cambogia [viii] più di 110.000 lavoratori di 200 fabbriche per brand come H&M, Adidas, PUMA and Levi Strauss hanno le attività sospese. In Bangladesh [ix], commissioni per 138 milioni di dollari [x] sono state cancellate, sospendendo lo stipendio a 150.000 dipendenti. Nel settore elettronico, 100.000 lavoratori di aziende come Intel, LG e Samsung Electronics sono a rischio in Vietnam [xi]. I materiali grezzi[xii] non arrivano più dalla Cina, dove i lavoratori delle fabbriche sono stati confinati a casa per mesi.


Mentre in Europa le compagnie hanno continuato a pagare i loro dipendenti, nonostante i negozi fossero chiusi, i lavoratori delle loro fabbriche non hanno avuto gli stessi benefici. Senza protezioni sociali, i lavoratori del settore tessile non hanno ricevuto lo stipendio dei mesi di marzo e aprile 2020. Il Ministro del Lavoro cambogiano ha annunciato [xiii] un piano di sostegno ai lavoratori del settore tessile per 38 dollari al mese, giudicato non sufficiente in rapporto agli stipendi percepiti precedentemente, necessari a sostenere anche le loro famiglie. Altri governi della regione non hanno preso misure sufficienti e la popolazione ridotta in povertà a fine marzo ha iniziato a protestare contro la fame [xiv].

Bangladesh. Source: Clean Clothes Campaign

Nel mese di maggio, alcune fabbriche tessili in Bangladesh, Cambogia e Vietnam hanno riaperto nonostante il lockdown per la restante popolazione e la minaccia del virus ancora presente. I lavoratori riportano [xv] che il distanziamento sociale e maschere protettive non sono state rese obbligatorie. Autobus affollati portano i lavoratori, spesso non sottoposti al tampone, alle fabbriche. Ciò mette in pericolo anche le loro famiglie. Contemporaneamente, nelle Filippine fornitori di Amazon [xvi] hanno costretto i lavoratori a restare in ufficio durante il lockdown per continuare a lavorare: si fossero rifiutati avrebbero perso i loro stipendi.


Conclusione

L’impatto del Coronavirus ha portato ad una de-globalizzazione, probabilmente temporanea, che ha però avuto grandi ripercussioni sulle fasce più deboli nei paesi in via di sviluppo. I lavoratori dei settori tessili e elettronici per le grandi multinazionali hanno visto i loro stipendi sospesi o hanno subito licenziamenti. La globalizzazione li aveva già resi vulnerabili tramite la sua logica di economia di scala, produrre al più basso costo possibile.


Le loro condizioni precarie con scarse protezioni sociali li hanno portati sulla soglia della povertà e ad accettare di tornare in quelle medesime fabbriche senza adeguate misure protettive. Nonostante accuse [xvii] di ONG locali, compagnie come Gap, Zara, Uniqlo e Tommy Hilfiger and Calvin Klein hanno preferito non rilasciare dichiarazioni [xviii].


Le misure di distanziamento sociale e protezione preventiva si dimostrano pertanto un lusso riservato solo ai paesi sviluppati e ai loro negozi dove questi prodotti vengono venduti ogni giorno durante la cosiddetta “Fase 2”. Vi è quindi l’urgenza che i governi del sud-est asiatico prendano misure adatte all’emergenza economica e sociale, proteggendo le fasce più deboli.

Referenze

[i] Francis Loh Kok Wah e Joakim Öjendal (2005), Southeast Asian Responses to Globalization.

[v] Human Rights Watch (2018). Human Rights in Southeast Asia.

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