top of page

La pandemia, le disuguaglianze e l’insicurezza alimentare: con il COVID si muore anche di fame

Aggiornamento: 25 gen 2021

Quando il COVID-19 iniziò a diffondersi su scala mondiale, fu visto come uno shock equo e venne anche chiamato il “great equalizer”, ossia un evento che avrebbe ridotto le disuguaglianze. Dopo tutto, il virus non fa distinzione fra ricchi e poveri. Invece ci siamo velocemente resi conto che i suoi effetti sono tutt’altro che equi, colpendo particolarmente le persone più fragili, a livello sanitario come economico. Una delle manifestazioni più lampanti di questo effetto è l’insicurezza alimentare, situazione nella quale sono cadute 270 milioni di persone in tutte le regioni del mondo dall’inizio del 2020 [i]. Questo aumento senza precedenti ha portato il tema dell’insicurezza alimentare al centro dei progetti di sviluppo. Non a caso, quest’anno il premio Nobel per la pace è stato assegnato al World Food Programme (WFP). Ma cos’è l’insicurezza alimentare e come ha fatto il COVID-19 a colpire così tante persone?


Cos’è l’insicurezza alimentare?


Per parlare dell’insicurezza alimentare, bisogna prima precisare il concetto di sicurezza alimentare. Non c'è una definizione universale ma la definizione più diffusa è quella proposta dalla FAO (Food and Agriculture Organization), organizzazione ONU specializzata nello sviluppo di politiche agricole [ii]. Durante il World Food Summit del 1996, essa viene descritta come una situazione nella quale “tutte le persone, in qualsiasi momento, hanno accesso fisico, economico e sociale ad alimenti sufficienti, sicuri e nutrienti così da soddisfare le proprie necessità e preferenze alimentari, oltre che una vita sana e attiva”. Nel 2008, la FAO precisa che quattro condizioni devono essere rispettate per ottenere la sicurezza alimentare [iii]. La prima è la disponibilità del cibo. Ciò implica livelli di produzione, stoccaggio e commercio sufficienti per soddisfare i bisogni della popolazione. La seconda è l’accessibilità al cibo. Quest’ultima deve essere omogenea in tutto il territorio di riferimento attraverso strutture di distribuzioni e redditi sufficientemente alti. La terza è la fruibilità del cibo che riguarda la qualità dell’alimentazione della popolazione. Questo comprende non solo l’offerta di nutrienti variegati ma anche una popolazione con le conoscenze sufficienti per consumare una dieta equilibrata. La quarta, e ultima, condizione è l’esistenza stabile delle tre condizioni appena citate. Quindi per far sì che una popolazione venga considerata in sicurezza alimentare, il cibo dev’essere disponibile, accessibile e fruibile in modo continuativo. Al contrario, l’assenza di almeno una di queste condizioni viene pertanto definita come una situazione di insicurezza alimentare.


L’insicurezza nel mondo prima del COVID


Per quanto il tema dell’insicurezza alimentare sia stato maggiormente presente nel dibattito pubblico degli ultimi mesi, non è purtroppo un fenomeno nuovo. Secondo la FAO, 690 milioni di persone, ossia più di tutto il continente europeo messo insieme, hanno sofferto la fame nel 2019. Di questi, 149 milioni l’hanno sofferta gravemente. Più di due volte l’Italia. Come si può vedere nella mappa qui sotto, i paesi con la più alta prevalenza di insicurezza alimentare si trovano soprattutto in Africa. Per esempio, Malawi, Niger, Sierra Leone e Liberia hanno tutti più del 80% della popolazione che soffre in modo moderato o acuto di insicurezza alimentare.

I paesi più colpiti sono spesso quelli che hanno risorse finanziarie o infrastrutturali insufficienti per dare il sostegno necessario alla loro popolazione. La situazione è ancor più drammatica in paesi vittime di conflitti, crisi economiche, naturali e climatiche estreme come alluvioni e siccità.


Vista la gravità della situazione, si è creato uno sforzo globale per combattere il problema. Ci sono tante ONG locali e internazionali come Care e la GreenShoots Foundation che provano a rafforzare le produzioni agricole e distribuiscono pasti. Inoltre, le agenzie per lo sviluppo dei paesi più sviluppati come il DFID inglese o lo USAID statunitense sono anche molto attive nel settore. Nel sistema ONU, ci sono anche agenzie specializzate come la FAO e IFAD (International Fund for Agricultural Development) focalizzate sul cibo e l’agricoltura. L’organizzazione che però rimane la più conosciuta e la più attiva è il World Food Programme (WFP). Nel 2019, ha aiutato circa 100 milioni di persone in quasi 90 paesi distribuendo 15 miliardi di pasti in collaborazione con più di un migliaio di ONG locali ed internazionali. Con la diffusione della pandemia da COVID-19 e l'aumento del numero di persone vittime di insicurezza alimentare nel mondo, il WFP si è quindi ritrovato al centro di questa battaglia e i suoi sforzi gli sono valsi il premio Nobel per la pace del 2020.


L’impatto del COVID-19 nel mondo


Nel suo rapporto pubblicato nel mese di novembre 2020, il WFP presenta con precisione l’impatto della pandemia sulle sue operazioni e sulle milioni di persone che si trovano in insicurezza alimentare. Come prima citato, il WFP stima che 270 milioni di persone stiano soffrendo di insicurezza alimentare acuta dovuto agli effetti della pandemia. A questo numero, se ne aggiungeranno altre 120 milioni nel 2021.


Come esempio, si può studiare la progressione del numero di persone soffrendo di insufficienza alimentare in Yemen, Siria, Mali e del nordest della Nigeria da gennaio fino a novembre 2020. Malgrado qualche calo dovuto al Ramadan, periodo in cui tradizionalmente aumentano le attività caritatevoli nei paesi a maggioranza musulmana, in Yemen e Siria e all’arrivo della stagione magra in Mali e Nigeria, i livelli di insufficienza alimentare sono sensibilmente più alti a novembre che all’inizio dell’anno. In Mali, il numero è passato da 7 milioni a più di 11 milioni durante i su citati dieci mesi. Il WFP specifica che questi non sono andamenti ciclici ma una situazione anomala e preoccupante.


Perché i paesi più colpiti sono quelli più poveri?


Abbiamo finora capito cos’è l’insicurezza alimentare, qual era la situazione prima della pandemia e quali sono stati gli effetti di quest’ultima. Dai dati presentati, si può notare che i paesi più colpiti sono quelli in via di sviluppo che, attraverso i lockdown imposti dei loro governi, hanno visto le proprie produzioni economiche paralizzate e le frontiere chiuse. Queste misure sono però state adottate anche dai paesi sviluppati. Rimane allora da capire come mai una risposta al virus relativamente omogenea abbia colpito in modo così diseguale la sicurezza alimentare dei paesi meno sviluppati.


Un primo motivo è la prevalenza del settore informale nei paesi in via di sviluppo. In molti paesi del mondo infatti lo Stato è così inefficiente e poco presente sul territorio che l’informalità è la norma. Ci sono più di 2 miliardi di lavoratori informali nel mondo che durante l’attuazione delle misure restrittive non hanno ricevuto il sostegno pubblico quando hanno perso il proprio stipendio. Infatti, il 76% dei lavoratori informali sono stati sensibilmente impattati dalla pandemia secondo le ultime stime dell’ILO (International Labor Organization), l’organizzazione internazionale che si occupa dei diritti dei lavoratori.


Una seconda categoria di persone particolarmente toccate dalle restrizioni sono i lavoratori migranti che non potendosi più spostare per lavorare, perdono la maggior parte del loro reddito. Circa 164 milioni di lavoratori migranti, perlopiù intracontinentali e spostandosi prevalentemente tra paesi in via di sviluppo, vedono il loro introito ridotto in modo significativo dalla crisi e sono a rischio di acuta insicurezza alimentare.


Inoltre, 800 milioni di persone nel mondo dipendono da trasferimenti di denaro provenienti da emigrati e destinati alle loro famiglie rimaste nel paese d’origine. Questi flussi finanziari sono anche chiamati rimesse. È però previsto che queste rimesse diminuiscano, mettendo a rischio di insicurezza alimentare 33 milioni di persone. Secondo la Banca Mondiale, i trasferimenti di rimesse si ridurranno del 20% nel 2020, ossia un calo di109 miliardi di dollari [iv]. Come si desume dalla mappa qui sotto, è nei paesi in via di sviluppo che le rimesse equivalgono ad una più alta percentuale del PIL (Prodotto Interno Lordo) nazionale e che sono quindi più colpiti da questo calo. Per esempio, in Nepal gli afflussi di rimesse equivalgono al 31% del PIL.

Un altro gruppo severamente colpito dalla pandemia è quello dei bambini. Molti programmi alimentari si basano sui pasti scolastici per nutrire i bambini in condizioni precarie. Con la chiusura delle scuole, approvvigionare questo gruppo demografico è diventato più difficile, soprattutto durante i mesi di marzo e aprile quando 12 milioni di bambini persero accesso ai pasti distribuiti dal WFP attraverso le scuole. Malgrado la situazione stia progressivamente migliorando, ci sono sempre 246 milioni di bambini che non hanno ancora accesso ai pasti scolastici [v]. Essendo caratterizzati da popolazioni più giovani, i paesi in via di sviluppo - e in particolare l’Africa con un età media di circa vent’anni – tendono ad avere una più alta proporzione della loro popolazione che dovrebbe andare a scuola e beneficiare di questo sostegno.

Oltre alle caratteristiche demografiche e sociali, la composizione dei consumi delle varie popolazioni è un altro fattore che spiega l’impatto sproporzionato nei paesi più poveri. Secondo Emanuela Cutelli, responsabile comunicazione per l’Italia del WFP, le famiglie più povere nel mondo spendono circa il 70% delle loro entrate in cibo [vi]. Qualsiasi diminuzione del loro reddito verrà quindi più probabilmente assorbita riducendo la quantità e qualità del cibo consumato da queste famiglie, aumentandone il rischio di insicurezza alimentare. Questo spiega perché la mappa sulla prevalenza dell’insicurezza alimentare mostrata precedentemente coincide con la mappa qui sotto che presenta la proporzione di spesa alimentare sulla spesa totale.

Per evidenziare maggiormente il contrasto, si può vedere nel grafico qui sotto i cinque paesi con la proporzione di spesa alimentare più alta insieme ai cinque paesi con la percentuale più bassa. La media mondiale e la proporzione italiana sono state aggiunte come riferimento. I paesi con la quota più alta tendono ad essere dei paesi meno sviluppati e con un incidenza dell’insicurezza alimentare maggiore. Il contrario vale per i paesi nella parte destra del grafico.


Cosa aspettarci nei prossimi mesi?


Un fattore da non sottovalutare è la lentezza della ripresa. All’inizio si pensava che la pandemia sarebbe stata una crisi che avrebbe avuto ramificazioni soprattutto nel breve termine e che avrebbe quindi richiesto un intervento rapido. Invece, gli esperti si stanno rendendo conto che gli effetti socioeconomici e demografici, combinati con i fattori presenti fin da prima del COVID, fanno in modo che la crisi sarà invece protratta nel tempo e deve essere fronteggiata con un azione sostenuta per vari mesi se non anni. Queste operazioni richiedono fondi e risorse importanti, e rischiano quindi di essere troppo care per i paesi più poveri che verranno quindi colpiti in modo ancora più marcato dall'insicurezza alimentare.


Il leader nella battaglia contro la fame: il World Food Programme


La necessità di maggiori fondi per mitigare i danni alimentari causati dalla pandemia è visibile nella progressione del budget del World Food Programme che è passato da 21 milioni di dollari nel 2019 a 400 milioni di dollari nel 2020. Questo aumento ha permesso all’organizzazione di aiutare nei primi nove mesi del 2020 lo stesso numero di persone aiutate durante tutto l’anno 2019 e di più che raddoppiare il numero di paesi monitorati. Malgrado questo aumento, il WFP sottolinea che non è sufficiente. Con la creazione del “Global Response Plan” a luglio 2020, il WFP ha lanciato un appello per chiedere 5.5 miliardi di dollari di fondi (esterni al budget) per fronteggiare la crisi in modo adeguato nei sei mesi successivi. La risposta dei donatori è stata pari solo alla metà e le conseguenze sono state risentite dalle popolazioni più bisognose. In Kenya, le razioni alimentari sono state ridotte tra il 40% e il 60%. In Colombia, il WFP aveva come obbiettivo di raggiungere 550,000 beneficiari aggiuntivi durante il mese di settembre. In ragione della mancanza di fondi, ne hanno assistiti solo 100,000 in più[vii].



Fonte: WFP/Alexis Masciarelli


Conclusione


La pandemia ha colpito tutti i paesi del mondo ma, focalizzandoci sull’insicurezza alimentare, in particolar modo i paesi meno sviluppati. Non c’è un solo motivo dietro a questo fenomeno, bensì una combinazioni di fattori. Alcuni, come conflitti e catastrofi naturali, erano già visibili prima della pandemia. Altri, come la precarietà dei redditi e la dipendenza da sostegni esterni, sono invece emersi dopo la diffusione del virus. Le disuguaglianze alimentari, pur essendo già diffuse prima dell’arrivo del COVID-19, si sono pronunciate ulteriormente come conseguenza delle restrizioni. L’esplosione dell’insicurezza alimentare e l'assegnazione del premio Nobel per la pace al WFP hanno offerto una visibilità al problema dell’insicurezza alimentare mai vista prima d’ora. Bisogna adesso trarre vantaggio da questa visibilità per sottolineare il messaggio che l’insicurezza alimentare non è solo una conseguenza della povertà economica, ma ne è anche una causa. Servono quindi investimenti che vadano oltre gli interventi di emergenza ma che finanzino cambiamenti strutturali, permettendo di aumentare la resilienza delle popolazioni più fragili in modo sostenibile. Attraverso programmi come la creazione di reti di sicurezza sociale, possiamo assicurarci che innumerevoli vite non vengano perse quando arriverà il prossimo shock economico.



Referenze


Fonte foto di copertina: WFP/Karolyn Ureña

93 visualizzazioni0 commenti

Comments


bottom of page