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“Non ce lo dicono”: il complotto, la paura e il bisogno di certezze



Un anno fa esatto, a metà agosto 2019, mi trovavo a Budapest, in Ungheria, intento a smontare la tenda dopo aver preso parte allo Sziget Festival, la manifestazione musicale più grande d’Europa. Non lo sapevo ancora, ma di lì a breve mi sarei ritrovato a vivere la mia prima esperienza da insegnante come supplente nella scuola media statale prima e, dopo aver mandato decine, forse un centinaio di curricula, nella privata. Il tutto intervallato da frequenti viaggi a Varsavia dove stavo portando avanti il mio dottorato in composizione. La seconda metà del 2019 e i primi due mesi del 2020 mi hanno dato davvero tanto in termini di soddisfazioni professionali.


Poi, ed è quasi superfluo aggiungerlo, sul finire di febbraio le cose sono precipitate fino alla chiusura, allora immaginata di poche settimane, delle scuole decisa per il 4 marzo e subito seguita dal lockdown del 10. Non lo scrivo per parlare dei momenti dolorosi che l’Italia intera ha passato in quelle settimane poi diventate mesi. Lo scrivo per parlare di me e della reazione che ho avuto davanti a queste misure. La pandemia mi aveva appena portato via il lavoro dei sogni per cui avevo passato anni a studiare e che avevo appena trovato e mi impediva di portare avanti in loco il mio dottorato cui lavoravo da più di un anno. La prima reazione che ho avuto è stata quella di cercare una spiegazione per quello che mi stava succedendo, ma soprattutto un colpevole.



L’Unione Europea aveva quindi ai miei occhi la colpa di non aver vigilato a sufficienza le frontiere e il traffico dei suoi stessi cittadini che erano stati liberi di entrare e uscire per settimane quando già si sapeva, o si sarebbe dovuto sapere, quello che stava succedendo a livello sanitario. Il governo italiano poi mi aveva chiuso il luogo di lavoro mentre teneva ancora aperte le palestre e i ristoranti . Quando poi pochi giorni dopo è arrivato il decreto con cui si chiudevano tutte le attività considerate “non essenziali”, allora ho pensato che le istituzioni, non avendo la forza e gli strumenti per combattere il virus si stessero semplicemente arrendendo di fronte a questo. Qualcuno, e su internet è facile trovarne traccia, ha addirittura pensato - e continua a pensare - che il virus sia stato diffuso ad arte da questa o quella istituzione per questo o quel profitto o interesse.



Mi ci sono volute un paio di settimane per metabolizzare la “botta” che io, ma in realtà tutti noi, avevamo preso. Allora mi sono reso conto che la colpa non era attribuibile a nessuno in particolare, che il virus a quanto pare era in circolazione da mesi e che nessuno avrebbe potuto fare nulla per prevenire la pandemia. Quello che era successo non era imputabile all’errore, o peggio alla volontà, di un governo o di un’istituzione soprannazionale. Era imputabile solo al caso. Nonostante mi consideri una persona molto razionale la mia prima reazione a marzo è stata tuttavia di cercarlo questo colpevole, anche se involontario, per quello che io e milioni di altre persone in tutto il mondo stavamo passando, perché se io non avevo sbagliato nulla, allora doveva essere stato qualcun altro a farlo. Ma le cose succedono, e succedono quasi sempre al di fuori dal nostro controllo.



La mente umana, come quella di molti altri animali, è per natura incline a ricercare, e a trovare, nessi causali anche dove questi non esistono. Tale predisposizione si spiega con il fatto che durante il corso dell’evoluzione l’uomo sembrerebbe si sia unito in gruppi e collettività più per sopravvivere che per cacciare, in quanto l’uomo era anche animale da preda. Una simile osservazione risalente a Darwin è tutt’oggi condivisa da molti psicologi dell’evoluzione; un animale da preda infatti ha più probabilità di sopravvivere se, di fronte ai segni di un potenziale pericolo, non si mette a ricercarne le vere origini ma giunge a conclusioni immediate in cui all’effetto, un ramo spezzato, un rumore, si fa corrispondere una causa che costituisca un pericolo come la presenza di un predatore. Poco importa che il rumore fosse un sasso che cadeva per conto suo o il ramo fosse stato spezzato in precedenza, l’evoluzione tende a selezionare questo tipo di reazione istintiva di fronte ai fenomeni cui assistiamo perché chi si dovesse attardare a riflettere cadrebbe più facilmente preda di altri animali.

Da qui la naturale tendenza dell’uomo a credere ad una causa sempre più grande che può essere identificata con un Dio o una divinità e poi, come scrisse K. Popper, successivamente alla crisi della spiritualità e al venire meno di Dio, a delle figure che prendessero il suo posto, e vedi allora i vari complotti sul NWO, Nuovo Ordine Mondiale, o sugli Illuminati.



“Il complotto ci fa delirare perché ci libera da tutto il peso di confrontarci da soli con la verità” diceva Pasolini e mai come in circostanze come quella che ci siamo trovati a vivere nei mesi scorsi e che continuiamo, si spera in misura sempre minore, a vivere tutt’oggi ritengo simile osservazione essere valida. Perché ammettere che la verità sia che non potevamo evitarlo, o che in futuro una pandemia possa ripresentarsi improvvisamente, significa ammettere che non siamo mai pienamente padroni della nostra esistenza. Se però tutto questo altro non fosse stato che il disegno, o un errore, di un governo o dell’Europa o di chiunque altro, allora sarebbe lecito pensare che magari una prossima volta qualcuno possa decidere di fare altrimenti, e forse noi potremmo risparmiarci un futuro dolore pari a quello che abbiamo vissuto negli ultimi mesi, ed è qui che il complotto diventa, per molti, fonte di speranza e liberazione.


Referenze


(I). Umberto Eco, Pape Satàn Aleppe, La nave di Teseo, Milano, 2016


(II). Girotto, Pievani, Vallortigara, Nati per credere. Perché il nostro cervello sembra predisposto a fraintendere la teoria di Darwin, Cadice edizioni, Torino, 2008

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