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Una metafora della vita


Una chiamata silenziosa che si desta tra le distrazioni chiassose che sorreggono le articolazioni della nostra quotidianità. Una voce capace di penetrare al nostro io, di strapparlo dal suo disorientamento del suo esser quotidiano ed inautentico per elevarlo.


La storia raccontataci da Richard Bach con il Gabbiano Jonathan Livingston (1970) si impone come un’esortazione all’umanità capace di raggiunger l’esser più proprio dell’esser umano in quanto tale ma ancora più intensamente raggiunge l’individuo, ogni donna ed ogni uomo nella sua particolarità ed unicità.


“Per la maggior parte dei gabbiani, volare non conta, conta mangiare. A quel gabbiano lì, invece, non importava tanto procurarsi il cibo, quanto volare. Più di ogni altra cosa al mondo, a Jonathan Livingston piaceva librarsi nel cielo” [i]


Il romanzo narra della storia del gabbiano Jonathan, il quale non si vuole compiacere del volo come umile e solo mezzo per contentare uno dei suoi istinti, in questo caso la fame, rimanendo legato completamente alla prospettiva corporea della sua esistenza come animale semplicemente presente.

Egli non vuole esistere, vuole vivere.

Per vivere, si dedica al volo, lo rende una passione, un percorso per potersi innalzare, per poter raggiungere la perfezione.

L’opera è divisa in tre parti, anche se ne era prevista una quarta, non pubblicata poiché incompleta, risulta interessante come la partizione potrebbe velatamente delineare il progetto del romanzo, proponendosi egli stesso come una via, un percorso da poter seguire che prevede un primo momento di tensione tra Jonathan e lo stormo, il secondo invece, si sofferma sul sacrificio di cui la passione è portatrice silenziosa, infine l’ultimo, il raggiungimento della felicità. In questo modo un grande valore investe la relazione di questi tre momenti, che forse non sono altro che i tre momenti che scandiscono il nostro tempo terreno, ciò che comunemente chiamiamo passato, presente e futuro della nostra vita?


I tre momenti sono insegnamenti di vita, è necessario scoprire la propria passione e non aver paura di perseguirla, al di là della disapprovazione comune.


Qualunque cosa tu faccia non pensare mai a cosa diranno gli altri, segui solo te stesso, perché solo tu nel tuo piccolo sai cosa è bene e cosa è male, ognuno ha un proprio punto di vista, non dimenticarlo mai, impara a distinguerti, ad uscire dalla massa, non permettere mai a nessuno di catalogarti come ‘clone di qualcun altro’, sei speciale” [ii]


Le onde del mare della quotidianità sembrano sovrastarci, rendendo impossibile distinguerci da quella massa d’acqua informe e vortiginosa. Ma la nostra forza è nella capacità di opporci, di nuotare o volare controcorrente, affidandoci alla nostra fervida volontà. La paura che si cela dietro la possibilità del fallimento porta l’essere umano ad omologarsi, a lascarsi trascinare, sprofondare, sballottare dalle onde senza fine del vivere inautentico, secondo la somiglianza altrui dietro cui si nasconde il vuoto, celando il proprio essere e facendosi disorientare dal frastuono di tutti, nei diversi giochi di imitazione ed omologazione per una vita limitata alla semplice presenza.


La passione ci strappa da questa presenza logora ed esausta, da quella lacerazione dell’Io più proprio che ha la possibilità di rinascere, nel sacrificio e nella costanza. Sono le nostre passioni a dare senso alla vita e la forza per contrastare quel sistema chiuso e senza vita che etichetta chi le persegue come ‘diversi’. Un appellativo di cui dobbiamo esser fieri, perché è il primo passo del nostro cammino verso ciò che Richard Bach chiama felicità. Ed il percorso del giovane gabbiamo continua, e senza svelare troppi dettagli per chi ancora non avesse avuto la possibilità di leggerlo, continuerà a cercare di oltrepassare i suoi limiti, i limiti che il suo corpo materiale gli impone. In realtà tutto il mondo terrestre sembrerebbe esser per lo scrittore nonché aviatore, una realtà illusoria, da noi costruita da ideologie e credenze capaci di camuffare la realtà più vera.


Non dar retta ai tuoi occhi, e non credere a quello che vedi. Gli occhi vedono solo ciò che è limitato. Guarda con il tuo intelletto, e scopri quello che conosci già, allora imparerai come si vola.” [iii]


… e così ancora…


“il vostro corpo non è altro che il vostro pensiero, una forma del vostro pensiero, visibile e concreta. Spezzate le catene che imprigionano il pensiero, e anche il vostro corpo sarà libero”. [iv]


Nella loro semplicità queste parole riecheggiano cristallinamente per il peso del loro significato, nella loro delicatezza solcano il terreno indicandoci una via a cui tutti dovremmo volger lo sguardo, come quando Agostino D’Ippona paragonava la filosofia, o almeno nella fase giovanile del suo pensiero, come un faro capace di indicare la strada del ritorno verso il porto. E questo probabilmente, in una chiave più modesta e fiabesca cerca di riproporci Richard Bach con il suo romanzo. Un’esortazione che rimane attuale e necessaria ancora ai giorni nostri, apparentemente usata ed abusata contro il suo stesso significato, molto spesso evocata per nascondere quella latente e pericolosa uguaglianza. Ci si lascia trascinare dallo stormo, assecondando i suoi movimenti e le sue direzioni. Lo stormo ci accoglie, ci invita a scegliere ma in realtà non c’è possibilità di scelta perché in quella calda atmosfera senza rischi e senza paura che ci promette una vita serena, il nostro Io si disperde, nella contemplazione d’altri, annullandosi in un’osservazione senza vista perché è uno sguardo incantato in continua agitazione tra rimbalzi di luce come in una sala di specchi, di riflessi e giochi di singole ed identiche apparenze.



Referenze


[i], [ii], [iii], [iv] da 'Il gabbiano Jonathan Livingston', Richard Bach, 1970.


Immagine di copertina presa da http://tecnocanacci.blogspot.com/2015/03/il-gabbiano-jonathan-livingston-richard.html?m=1


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