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Viviamo in un'epoca di abbondanza, circondati da norme e istituzioni che rendono l'atto del consumo più attraente e accessibile. Tuttavia, tra il soddisfare i nostri bisogni primari e permetterci uno stile di vita confortevole, siamo stati spinti in cicli di consumo insostenibili dalle istituzioni socio-economiche esistenti. Secondo l'ONU, se i nostri attuali modelli di consumo e produzione dovessero persistere, entro il 2050, avremmo bisogno delle risorse di tre pianeti per sostenerli. Purtroppo per noi, ne abbiamo solo uno.
Per mitigare le conseguenze del consumo eccessivo, le élite politiche e commerciali hanno evocato un'alternativa conosciuta come green consumerism (consumismo verde); una soluzione end of pipe[1] che riduce al minimo l'impatto ecologico dei processi di produzione e impiega schemi di marketing per incoraggiare il consumo di prodotti green. Ma l'acquisto di prodotti eco-certificati che ostentano la parola "sostenibile" sulle loro etichette è sufficiente a liberarci dall'emergenza planetaria? Il consumismo verde è compatibile con lo sviluppo sostenibile così come lo conosciamo oggi? La risposta è no.
Tenere i consumatori imbrigliati nell'apparenza della scelta
Se analizziamo il consumismo verde nelle sue radici ideologiche, ci accorgiamo che deriva dall'ideologia neoliberale che ha sostenuto la maggior parte dei sistemi economici occidentali a partire dagli anni ’70. Questa filosofia economica sostiene la piena libertà del mercato e prevede che i meccanismi di mercato non regolamentati si sposteranno naturalmente verso l'equilibrio. È nella sua base ideologica che troviamo la prima discrepanza: mentre lo sviluppo sostenibile richiede moderazione, riflessione e la regolamentazione dell’economia, il neoliberismo e il consumismo verde incoraggiano un consumo incrementale e insensato, e un intervento dello stato minimo per sostenere una crescita economica sempre crescente. Nella tradizione neoliberale, la crescita del PIL è prioritaria rispetto alle considerazioni socio-ecologiche e, di conseguenza, esternalizza la responsabilità per i danni ecologici sui consumatori. Ciò significa che gli individui, attraverso le loro scelte di consumo, sono visti come gli unici determinanti della gestione sostenibile o non sostenibile delle risorse.
L'attrattiva del consumismo verde sta nel fatto che sembra offrire una soluzione alla crisi ecologica, senza richiedere ai consumatori alcuna riflessione sulle cause profonde del consumo insostenibile, né esigere alcun sacrificio da parte dei governi o delle imprese: una proposta insufficiente se non pericolosa. I consumatori sedotti dalla prospettiva di beni facilmente acquistabili ed economici non riflettono sull'origine dei prodotti (La produzione di questo oggetto ha accelerato la deforestazione nella foresta amazzonica? Si è basata sullo sfruttamento dei lavoratori?) né sulle conseguenze di le loro scelte di consumo (Il mio acquisto contribuirà allo spreco e all’inquinamento? Perpetuerà cicli di sfruttamento ecologico e sociale?). Il consumismo verde non forza questo tipo di riflessione e quindi approfondisce la perdita di autonomia individuale. Le persone (consapevolmente o inconsciamente) sono intrappolate nei cicli di consumo da prodotti progettati per essere sostituiti piuttosto che riparati e da schemi di marketing che utilizzano le mode per creare domanda di beni.
La mancanza di questa volontà di riflettere ed indagare oltre le etichette si estende oltre le scelte di consumo individuali fino alla ragione fondamentale dei nostri consumi: la crescita del PIL. Molti argomenti potrebbero essere addotti contro il paradigma economico che privilegia la crescita monetaria rispetto a considerazioni socio-ecologiche, ma la più rilevante per questo articolo è che la crescita esclusivamente numerica ignora l'integrità dei fattori di produzione (cioè i beni naturali e le risorse umane). Ciò comporta che la crescita oggi rischia di sacrificare le fondamenta della nostra crescita per il domani. Nonostante questa grave carenza, la crescita stabile del PIL rimane l'obiettivo principale delle imprese e dei governi nazionali, le cui politiche mireranno sempre ad aumentare la produzione totale - di solito stimolando la domanda. Il consumismo verde offre a questi ultimi la possibilità di proteggere lo status quo e di continuare a perseguire la crescita economica, sembrando al contempo perseguire obiettivi politicamente auspicabili.
Un peso per le risorse limitate
I mercati non regolamentati che il neoliberismo e il consumismo verde sostengono, sfruttano le risorse limitate della Terra a un ritmo che supera la loro capacità di rigenerarsi. Per stimolare e mantenere i livelli di consumo necessari alla crescita economica, i prezzi devono rimanere bassi e questo si ottiene esternalizzando i costi di produzione. La perdita di capitale naturale[2], la distruzione dei mezzi di sussistenza delle comunità che dipendono dalle risorse naturali, l'eccessiva produzione di rifiuti e gli impatti sulla salute causati dall'inquinamento comportato dalla produzione, non si riflettono nel prezzo del bene finale. In questo modo, il costo ecologico della produzione viene proiettato sulla società nel suo complesso nella forma di un ambiente deteriorato che non può rigenerarsi prima del prossimo ciclo produttivo. Il consumismo verde legittima la perpetuazione di questo modello di produzione e, di conseguenza, anche la nostra crescita sulla base di uno sfruttamento eccessivo[3]. In termini sociali, il consumismo verde non riesce a decostruire istituzioni insostenibili perché fa appello soprattutto alla moralità dei consumatori benestanti, escludendo così i lavoratori a basso reddito che non possono permettersi di includere considerazioni ambientali nelle loro scelte di consumo. Di conseguenza, questo schema rischia di aumentare la disuguaglianza percepita tra coloro che possono permettersi di fare acquisti eco-friendly e coloro che non possono.
Una conseguenza finale del consumismo verde è che lascia invariato il suddetto paradigma consumistico e contribuisce all'approfondimento dell'individualismo. Il sociologo Anthony Giddens ha teorizzato che nell’era moderna, gli individui costruiscono la loro identità intorno alla loro capacità di consumare e di esercitare una riflessione personale. Cosa voglio? In che modo questo prodotto mi renderà la vita più facile? Questo tipo di auto-percezione e riflessione allontana l'individuo dalle identità comuni e dalla capacità di articolare i problemi comuni, danneggiando le possibilità di azione collettiva. Con l'assenza di un senso di comunanza e la centralità del consumo nella costruzione dell'identità, gli individui cessano di considerarsi attori politici e, di conseguenza, il consumo diventa lo strumento principale per il cambiamento sociale perché è percepito come la sfera in cui gli individui possono esercitare il maggior potere. L'azione politica collettiva non è considerata una misura valida per il cambiamento e non c’è una vera riflessione su dove dovrebbero risiedere la vera responsabilità. Questa alienazione è perpetuata dalla nozione di consumismo verde perché quest’ultimo crea nuovi mercati piuttosto che opportunità di mobilitazione collettiva e cambiamento istituzionale.
Il problema non è solo cosa si compra - ma quanto. Come afferma l’autore statunitense, Joshua Becker[4], "il prodotto più ecologico è quello che non si compra". Pertanto, il consumismo verde, di per sé, è una politica inefficace per realizzare uno sviluppo sostenibile perché non riesce a rimediare i difetti strutturali dell'attuale contesto istituzionale e sociale. Può essere d’aiuto, ma deve essere integrato da ulteriori misure più radicali. Ci deve essere una profonda e comune riflessione sulla causa dell’attuale stato del nostro pianeta, perché se si ritiene che la crisi ecologica sia una responsabilità di tutti, nessuno è ritenuto responsabile. Gli attori che hanno un interesse personale nella continuazione degli attuali sistemi economici devono essere esposti; la sostenibilità deve essere incisa nella progettazione dei prodotti, non solo nei processi di produzione; e deve essere incoraggiata l’azione politica collettiva. E la prossima volta che siete fuori a fare shopping, ricordate che l'atto di strisciare una carta di credito ha conseguenze che vanno oltre i 15 secondi di felicità che vi porta.
[1] Tipo di soluzione attivata alla fine della linea di produzione [2] stock di beni, risorse e servizi naturali [3] Questa tendenza è attualmente dimostrata dai primi progressi delle “World Overshoot Days” (data in cui la pressione dell'umanità sulle risorse naturali supera la quantità che la Terra può rigenerare in quell'anno) [4] Joshua Becker è l'autore e fondatore di Becoming Minimalist, un blog dedicato a incoraggiare e guidare i lettori a possedere meno beni materiali in un modo che aumenta la loro felicità
Don’t be fooled by the label
We are living in an era of abundance, surrounded by norms and institutions that make the act of consuming more attractive and accessible. Yet somewhere between satisfying our basic needs and allowing ourselves comfortable lifestyles, we have been pressured into unsustainable consumption cycles by existing socio-economic institutions. According to the UN, if our current consumption and production patterns persist, by 2050, we would need the resources of three planets to sustain them. Unfortunately for us, we only have one. To mitigate the consequences of overconsumption, political and business elites have conjured up an alternative known as green consumerism; an end-of pipe solution that minimizes the ecological impacts of production processes and employs marketing schemes to encourage the consumption of “green” goods. But is buying eco-certified products flaunting the word “sustainable” on their labels enough to free us from the planetary emergency? Is green consumerism compatible with sustainable development as we know it today? The answer is no.
Keeping consumers submissive under the appearance of choice
If we analyze green consumerism in its ideological roots, we notice that it stems from the neoliberal ideology that has underpinned the majority of western economic systems since the 1970s. This economic philosophy advocates full market freedom and predicts that unregulated market mechanisms will naturally move towards equilibrium. It is in its ideological foundation that we find the first discrepancy; while sustainable development calls for restraint, reflection and market regulation, neoliberalism and green consumerism encourage incremental, mindless consumption and minimal state intervention to sustain ever-increasing economic growth. In the neoliberal tradition, GDP growth is prioritized over socio-ecological considerations and, as a consequence, outsources the responsibility for ecological damage onto consumers. This means that individuals, through their consumption choices, are seen to be the sole determinants of the sustainable or unsustainable management of resources.
The attractiveness of green consumerism lies in the fact that it appears to offer a solution to the ecological crisis, without requiring from consumers any reflection about the root causes of unsustainable consumption nor demanding any sacrifice from governments or corporations: an insufficient if not dangerous proposal. Consumers seduced by the prospects of easily and cheaply acquired goods, do not reflect upon the origin of products (Did the production of this product accelerate deforestation in the Amazon rainforest? Did it rely on modern-day slavery?) nor on consequences of their consumption choices (Will my purchase contribute to waste and pollution? Will it perpetuate ecologically and socially exploitative cycles?). Green consumerism does not force this kind of reflection and therefore deepens the loss of individual autonomy. People, either consciously or unconsciously, are locked into consumption cycles by products designed to be replaced rather than repaired and by marketing schemes that use social trends to create demand for goods.
The absence of reflectivity required by green consumerism extends beyond individual consumption choices to the underlying reason for our consumption - GDP growth. Many arguments could be made against the economic paradigm that prioritizes monetary growth over socio-ecological considerations, but most relevant to this article is that solely numeric growth ignores the integrity of factors of production (i.e. natural assets and human resources). This entails that growth today risks sacrificing the foundations of our growth for tomorrow. Despite this grave shortcoming, the stable growth of GDP remains the key objective of corporations and national governments, whose policies will always aim at increasing total output – usually by stimulating demand. Green consumerism provides these a chance to protect the status quo and continue pursuing economic growth, while appearing to simultaneously pursue politically desirable objectives.
A burden for finite resources
The unregulated markets that neoliberalism and green consumerism support, exploit the Earth’s finite resources at a rate that exceeds their capacity to regenerate. To stimulate and maintain the levels of consumption necessary for economic growth, prices must be kept low and this is achieved by externalizing the cost of production. Loss of natural capital[1], destroyed livelihoods of communities dependent on natural resources, excessive waste production, and health impacts caused by production-made pollution, are not reflected in the price of the final good; and the ecological cost of production is projected onto society as a whole in the form of a deteriorated environment that cannot regenerate before the next production cycle. Green consumerism legitimizes the perpetuation of this model of production and ultimately, our continued growth on the basis of over-exploitation[2]. In social terms, green consumerism fails to deconstruct unsustainable institutions because it mostly appeals to the morality of the affluent consumer, thereby excluding low-income earners who cannot afford to include environmental considerations in their consumption choices. As a result, this scheme risks increasing the perceived inequality between those who can afford to make “eco-friendly” purchases and those who cannot.
A final consequence of green consumerism is that it leaves the aforementioned consumerist paradigm unchanged and contributes to deepening individualism. Sociologist Anthony Giddens theorized that in the modern era, individuals build their identities around their ability to consume and exercise personal reflection. What do I want? How will this product make my life easier? This kind of self-perception and reflection alienates the individual from communal identities and the ability to articulate common problems, ultimately damaging the possibilities for collective action. With the absence of a sense of communality and the centrality of consumption in identity-building, individuals cease to consider themselves political actors. As a result, consumption becomes the primary tool for social change because it is perceived as the sphere in which individuals can exert the greatest power; collective political action is not considered a valid measure for change and there is no true reflection about where true responsibility and accountability should lie. This alienation is perpetuated by the notion of green consumerism because it creates new markets rather than opportunities for collective mobilization and institutional change.
The issue is not only what you buy – but how much. As US author, Joshua Becker[3] states, “the most environmentally friendly product is the one you didn’t buy” Therefore, green consumerism by itself, is an ineffective policy to realize sustainable development because it fails to address the structural flaws in the current institutional and social layout. It may help, but it has to be complemented by further, more radical measures. There must be deep, common reflection into where real responsibility should lie because if the ecological crisis is believed to be everyone’s responsibility, no one is held accountable. Actors with vested interests in the continuation of current economic systems must be exposed; sustainability must be engraved into the design of products, not just production processes; and collective political action must be encouraged. And the next time you are out shopping, remember that the act of swiping a credit card has consequences beyond the 15 seconds of happiness it brings you.
[1] stock of natural assets and ecosystem services that make life possible [2] This trend is currently demonstrated by early advents of World Overshoot Days (date on which humanity’s demand for natural resources exceed the quantity that the Earth can regenerate in that year) [3] Joshua Becker is the author and founder of Becoming Minimalist, a blog dedicated to encouraging and guiding readers towards owning fewer material possessions in a way that augments their happiness
Referenze
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