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Povertà alimentare made in Italy

Aggiornamento: 11 apr 2021

Nell’ultimo articolo precedente si è discusso delle conseguenze della pandemia e delle conseguenti restrizioni per i paesi in via di sviluppo. Ma qual'è la situazione in Italia?


Revisione: Cos'è la povertà alimentare?


Come già discusso nel precedente articolo, non c’è un consenso universale su la definizione di povertà alimentare. Quella citata più frequentemente è proposta dalla FAO e mette l’accento su quattro caratteristiche: la disponibilità fisica del cibo, l’accesso fisico ed economico al cibo, la fruibilità del cibo e l’esistenza stabile delle tre condizioni appena citate. In poche parole, per non essere in povertà alimentare, in qualsiasi momento una persona non solo deve avere i mezzi finanziari per poter comprare cibo, ma questo dev’essere disponibile e di qualità. Malgrado ciò, l’Unione Europea e l’Italia misurano le persone sperimentando la povertà alimentare usando come definizione l’incapacità di permettersi almeno un pasto con carne, pesce, pollo o equivalente vegetariano ogni due giorni. Visto che il tema di questo articolo riguarda l’Italia, quest’ultima definizione viene usata.


Situazione attuale e tendenze


Malgrado l’Italia sia la terza economia più grande dell’Unione Europea, la povertà alimentare in Italia è particolarmente alta. Eurostat calcola che nel 2019, 15% degli italiani soffrivano di povertà alimentare, ben oltre la media europea (11%). Solo 6 paesi hanno una percentuale più alta: Bulgaria, Ungheria, Romania, Lituania, Slovacchia e Lettonia.


La situazione è ancora più preoccupante se si va a guardare l’andamento. Infatti, negli ultimi anno la povertà alimentare italiana è aumentata quando invece, sui 27 paesi membri dell’Unione Europea, 20 sono riusciti a diminuirla. Considerando il suo livello di sviluppo, l’Italia ha chiaramente notevoli difficoltà a garantire il diritto al cibo. Eppure questo viene considerato come un diritto umano fondamentale dall’articolo 25 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.


È in questo contesto precario che si introduce la pandemia da COVID-19. Le restrizioni messe in atto per limitare i contagi hanno rallentato e spesso fermato le attività economiche in tutto il paese, causando il calo dei redditi di milioni di italiani. Secondo un rapporto di Censis-Confcooperative, 2,1 milioni di famiglie in Italia potrebbero cadere in condizione di povertà assoluta, sommandosi alle 4,6 milioni di famiglie già presenti in questa situazione. Andando più in dettaglio, si può però notare che il 60% dei giovani ed il 70% gli occupati a tempo determinato hanno visto il loro reddito calare. Ben oltre la media nazionale del 50%.


Ma cosa c’entra il calo delle disponibilità economiche degli italiani con la povertà alimentare e le disuguaglianze? Malgrado l’Italia sia un paese sviluppato, il meccanismo trattato per i paesi in via di sviluppo nell’articolo precedente è applicabile anche per il contesto italiano. Quando una persona vede il suo reddito diminuire, decide di sacrificare le spese meno indispensabile. Una persona benestante, chiamiamola Alberto, può ridurre i propri consumi diminuendo le uscite al ristorante o usando i propri risparmi. Una persona meno agiata, chiamiamola Lucia, tende però a fare meno acquisti non indispensabili e ad avere risparmi più modesti. Quindi, quando Lucia vede il proprio stipendio improvvisamente ridotto deve prendere una decisione più difficile. Le due spese più importanti per una persona nel quintile più povero come Lucia sono i prodotti alimentari e i costi legati alla propria abitazione, come affitto e bollette che in totale rappresentano i due terzi delle sue spese. In questi casi, siccome è generalmente difficile ridurre l’affitto in tempi brevi, Lucia si troverebbe obbligata a ridurre l’unica spesa importante che può essere diminuita velocemente: quella alimentare. Difatti, come si può vedere qui sotto, c’è una sovrapposizione quasi perfetta fra stipendio, incapacità a fare fronte a spese impreviste e l’impossibilità di mangiare carne o pesce ogni 2 giorni nelle cinque zone geografiche italiane (Nord ovest, Nord est, Centro, Sud e Isole). Come spesso accade quando si parla di disuguaglianze territoriali in Italia, la divisione fra nord e sud è purtroppo facilmente individuabile.


Da alto in basso: Reddito medio per famiglia (€); Famiglie che non riescono a far fronte a spese impreviste (%); Famiglie che non possono permettersi di mangiare carne o pesce ogni due giorni (%)



Non si hanno ancora dati a scala nazionale sull’impatto della pandemia sul numero di persone soffrendo di povertà alimentare. Actionaid ha però intervistato le famiglie che a Corsico (hinterland milanese) ricevono aiuti alimentari dall’Associazione La Speranza, una no profit che offre sostegno a famiglie in difficoltà da più di 25 anni, e la situazione è preoccupante. Più di tre quarti degli intervistati dichiarano aver dovuto saltare pasti a causa del lockdown nei primi due mesi della pandemia. Per il 66%, è successo più di dieci volte. Andando a guardare più in dettaglio, si può vedere che l’80% dei beneficiari sono donne adulte. Il rapporto di Actionaid sottolinea che sono proprio le donne e i minorenni i più impattati dalla povertà alimentare nel periodo pandemico studiato.


La Risposta del governo e delle ONG


Vista la gravità della situazione, a fine marzo 2020 il Governo Italiano decise di distribuire buoni spesa per acquisti alimentari e di beni di prima necessità. La somma totale sborsata gira intorni ai 400 milioni di euro usando gli oltre 8000 comuni italiani come intermediari. Per quanto fosse una somma notevole aiutando milioni di persone, questa misura fu messa in atto una sola volta dando quindi un supporto temporaneo. Contemporaneamente, molti comuni si unirono a questo sforzo pubblico contribuendo con i propri fondi o aiutando a raccogliere fondi.


Nel frattempo, si è mobilitato un importante sostegno dal basso grazie ad innumerevoli no profit che hanno visto i loro servizi più richiesti che ormai. Per esempio, Caritas e Banco Alimentare, due delle più grandi organizzazioni nell’ambito dell’assistenza alimentare, si sono ritrovate con 300.000 domande in più in confronto al periodo prepandemico. Ciò equivale ad una crescita del 40% della distribuzione sul territorio nazionale arrivando fino ad un incremento del 70% nel sud. A Roma, nel mese di giugno 2020, la Caritas ha distribuito il 600% di beni alimentari in più in confronto allo stesso mese dell'anno precedente.


Perché le ONG sono così importanti? Il piano italiano non funziona e aumenta le disuguaglianze


Le ONG sono quindi state essenziali per aiutare milioni di persone in Italia in uno dei momenti più delicate della storia italiana dal dopoguerra. Per quanto i loro interventi siano stati lodevoli, segnalano anche l’inadeguatezza dello stato nel rispondere a questo tipo di emergenze. Come mai lo stato italiano non è riuscito a dare sollievo alla propria popolazione dopo averle chiesto di restare in casa? Per capirlo, bisogna prima fare chiarezza su come funzionano gli aiuti alimentari in Italia.


Questi ultimi possono essere divisi in due tipologie: quelli di natura pubblica e quelli di natura privata sociale. Nella prima viene inclusa l’AGEA (Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura) che, grazie a fondi europei della FEAD (Fondo di aiuti europei agli indigenti), sovvenziona l’acquisto e la ripartizione di beni alimentari attraverso le banche alimentari. Secondo la Corte dei Conti, la FEAD fornisce un terzo dei prodotti alimentari poi distribuiti dalle banche alimentari. Ciononostante, la Corte dei Conti specifica anche che il fondo esibisce delle difficoltà in vari aspetti tra cui l’identificazione degli individui più esposti alla povertà. In altre parole, la FEAD distribuisce molto supporto in Italia ma non sempre riesce ad individuare le persone che hanno più bisogno del suo aiuto.


Il secondo tipo di intervento include le ONG presenti nel settore degli aiuti alimentari. Queste non si basano solo su finanziamenti pubblici come quelli del FEAD ma anche su donazioni private, collette e gli esuberi alimentari dei ristoranti e supermercati. Questi interventi privati sono aumentati notevolmente negli ultimi decenni anche grazie al rinnovato interesse dell’opinione pubblica che ha portato il governo ad intervenire. Oggi in Italia esistono una serie di incentivi per incoraggiare la donazione invece che la distruzione delle eccedenze come la facilitazione delle procedure di donazione e diminuzione della tassa sui rifiuti. Queste politiche hanno riscontrato parecchio successo non solo nel combattere lo spreco ma anche ad aiutare gli indigenti. Per esempio, il Banco Alimentare, nel 2019, è riuscito a distribuire più di un milione di porzioni di cibo grazie alle eccedenze.

È evidente che in Italia manca una quadro normativo completo applicabile su tutto il territorio nazionale. Questa frammentazione rende non solo meno efficace ogni singola iniziativa, ma complica la coordinazione fra i vari attori e ostacola la raccolta di dati. Quest’ultimo punto, per quanto possa sembrare secondario, è indispensabile per capire dove abitino le persone più in difficoltà e quali siano i loro bisogni. Inoltre, avere dati affidabili permette alle diverse organizzazioni di cooperare più velocemente ed efficacemente evitando di sovrapporre le loro diverse iniziative.


I Criteri di eleggiblità aumentano le disuguaglianze


Infine, un ultimo problema da considerare sono i criteri usati per distribuire gli aiuti. Infatti, quando si ricevono fondi importanti, la loro corretta distribuzione è sempre una grossa sfida. Riguardando i 400 milioni stanziati dal governo a fine marzo, l’Ordinanza della Protezione Civile dava ai Comuni molta libertà di scelta dei criteri, causando importanti problemi. I criteri più problematici sono l’enfasi sul differenziale di popolazione e la residenza.


Sulla somma totale stanziata dal governo, l’80%, ossia 320 milioni di euro, sono stati allocati in base al numero di persone residenti in ogni comune: più persone abitano in un comune, più risorse venivano ricevute. Il meccanismo sembra sensato. Il problema è che i comuni più popolati sono concentrati nel Nord del paese dove il reddito imponibile è più elevato e quindi tendono ad avere più fondi. Invece, nel Meridione non solo la popolazione è meno densa ma in più è mediamente anche più povera e necessiterebbe quindi di più aiuti. Versare una percentuale più alta dei fondi basata sul reddito invece che sulla popolazione avrebbe permesso di stanziare più fondi ai comuni più in difficoltà.

Inoltre, per definire chi potesse beneficiare dei buoni alimentari, la maggior parte dei Comuni ha usato il criterio della residenza. Tra questi, il Comune di Ferrara aveva le condizioni più ferree, richiedendo a chi fosse straniero di avere un permesso di soggiorno europeo per soggiornanti a lungo periodo. L’UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) ha conseguentemente pubblicato delle linee guida per evidenziare il rischio dell’esclusione degli stranieri senza permesso di soggiorno e delle persone bloccate in comuni dove non sono residenti a causa del lockdown. Il problema è ancora più grave se si considera che il 30% della popolazione straniera in Italia vive sotto la soglia di povertà quando invece è del 6.4% fra gli italiani. Queste linee guida non avevano valore giuridico e i comuni continuarono ad usare il criterio di residenza.



La povertà alimentare non è un problema che affligge solo i paesi poveri ma era una realtà per una famiglia italiana su dieci anche prima della pandemia. Con l’arrivo del virus e il rallentamento dell’economia, sono proprio le persone meno agiate che corrono il rischio più alto di non mangiare in modo adeguato. Ciò è ancora più probabile per donne, bambini e abitanti del. Per rispondere a questa crisi, gli enti pubblici e privati sociali si sono mobilizzati per aiutare il maggior numero di persone possibile ma operano in un contesto frammentato e scollegato dove la distribuzione di aiuti si basa in modo eccessivo sulle no profit e criteri inadeguati. La pandemia non è la prima e non sarà l’ultima crisi a mettere a rischio la nutrizione di milioni di italiani. Servono quindi riforme institutionali e politiche economiche importanti che permettano di assicurare il diritto universale che è il cibo.


Referenze


Eurostat

Istat


Fonti foto




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