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Immagine del redattoreEva Prodi

Rojava: l'oppressione delle donne come repressione della rivoluzione democratica.

Aggiornamento: 17 set 2020

Lonjin Mohammed e Rojin Mohammed: questi sono i nomi delle due sorelle di venticinque e diciannove anni rapite e detenute illegalmente in un carcere nella città di Afrin dopo essere state trovate in possesso di una patente di guida rilasciata dall’Amministrazione Autonoma della Siria del nord-est, dove il popolo curdo da anni combatte per la liberazione. L’emittente televisiva curda Rudaw riporta infatti che le comunicazioni delle due giovani con i parenti hanno permesso la scoperta di una prigione militare in mano alle fazioni armate siriane appoggiate dalla Turchia, in cui sarebbero rinchiuse una decina di altre donne curde, trattenute in condizioni che “secondo nessuna legge, norma, o valore umano possono essere ritenute accettabili”[i].


Zehra Berkel, Emine Veysi e Hebun Mele Xelîl sono invece i nomi di altre tre donne curde, che da anni combattevano contro il fascismo dello stato turco e di Daesh e che proprio in questa resistenza sono cadute, uccise da un drone turco che ha attaccato una cittadina nei pressi di Kobane, altra roccaforte della resistenza curda.

C'è poi Sara Kaya, l'ex co-sindaca di Nusaybin (Turchia), condannata a sedici anni di prigione con l’accusa di appartenere a un’organizzazione illegale, ovvero il Partito dei Lavoratori Curdi (PKK).


Questi nomi che risuonano soffocati in qualche sottotitolo di giornale si aggiungono a un elenco di persone che ogni giorno, in Kurdistan, lottano silenziosamente per un futuro di libertà, protagonisti e vittime di una rivoluzione che vede proprio nella liberazione delle donne un essenziale punto di forza e una possibilità per il superamento di una società oppressiva. Da diversi anni, infatti, quei territori che spesso vengono descritti come aridi scenari di guerra e violenza sono diventati terreno fertile per un approccio innovativo alla politica. La regione del Rojava, che si estende a nord-est della Siria, è dal 2012 teatro di una rivoluzione sociale, politica e culturale che ha portato non solo all’acquisizione di un territorio controllato de facto dal popolo curdo, ma anche allo sviluppo di un vero e proprio esperimento di autentica democrazia, un modello all’avanguardia per una società basata sull’uguaglianza. Di fondamentale importanza è stato il contributo femminile alla trasformazione divenuta poi nota come “Rivoluzione delle donne”. Queste ultime hanno dato vita a un vero e proprio cambiamento, non solo schierandosi come combattenti sul campo, ma anche attuando una vera e propria lotta all’ideologia capitalista, patriarcale e sessista della società moderna.





Migliaia di donne curde hanno infatti preso parte alle operazioni militari dell’Unità di Difesa delle Donne (YPJ), che dal 2013 affianca l’Unità di Protezione Popolare (YPG), lottando dunque contro lo Stato Islamico nonché contro l’invasione turca dei cantoni del Rojava. Le truppe dell'YPJ hanno avuto la forza di respingere gli attacchi dello Stato Islamico nel corso della storica Resistenza di Kobane, respingendo l'avanzata dell'ISIS nella Siria nord-orientale. Al contempo, hanno avuto il coraggio di continuare a combattere l'oppressione turca e la fermezza per resistere al regime siriano di Assad. E nel lottare contro tale onnipresente vessazione, hanno avuto la lungimiranza di opporsi al nemico più diffuso, comune tra i popoli di tutto il mondo: il patriarcato.


Le combattenti curde sono state in grado di rifiutare ogni tradizionale distinzione di genere, ridefinendo il ruolo della donna in un contesto in cui sul sessismo istituzionalizzato si basano costanti violenze e crimini di guerra, tanto che il femminile è spesso ridotto a trofeo in caso di vittoria, e dunque a schiavitù in caso di sconfitta. In tal modo, le donne dell'YPJ non combattono solo l'ISIS, ma la sua misogina repressione della donna; non combattono solo l'esercito turco, ma uno stato oppressore che si basa ancora su una forte supremazia del maschile come espressione e riaffermazione dello status quo.


Come scrive il leader curdo Abdullah Öcalan, fondatore del PKK, arrestato nel 1999 e da allora tenuto prigioniero sull'isola turca di İmralı: "Il maschile è diventato Stato e lo ha trasformato in cultura dominante. Tutte le ideologie, di stato e di potere, derivano da comportamenti sessisti […]. Il capitalismo e lo stato-nazione non sono che il maschile dominante nella sua forma istituzionalizzata, [...] sono il monopolio del maschio dispotico e sfruttatore”[ii].


La liberazione della donna e il contingente superamento dei ruoli di genere divengono dunque il passaggio fondamentale verso un modello di democrazia onnicomprensivo e in grado di ridurre le diseguaglianze. In quest'ottica risulta chiaro come i frequenti attacchi ai territori autonomi del Rojava non rappresentino soltanto operazioni militari ma tentativi di riaffermare l'egemonia culturale dominante.


Quel terreno in cui il popolo curdo aveva coltivato i semi della resistenza e della giustizia sociale è dunque nuovamente dissestato a causa di una guerra che colpisce anche e soprattutto un’ideologia. Tuttavia, la forza del popolo che ha potuto resistere all’ISIS, al regime di Assad e all’imperialismo turco risiede in una radicata consapevolezza di princìpi e visioni innovative per una società libera dalle distinzioni di genere e da diseguaglianze e sistemi di potere che ne derivano.


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