Il self-branding è un’attività ormai acquisita a livello mondiale che impegna ciascun individuo al di là delle differenze socioculturali, economiche, politiche ed epistemologiche. La sua stessa definizione ‘creazione e gestione del proprio marchio personale’ ci fornisce una chiara idea della sua funzione. Essa è comunemente attribuita a Tom Peters in un suo articolo del 1997: “You branded, branded, branded, banded […] everyone has a chance to learn, improve and build up their skills. Everyone has a chance to be a brand worthy of remark”(I), anche se alcune tracce possono esser ritrovate nel libro ‘The battle for your mind’ del 1980 (II).
Al di là della paternità del termine è importante valutare come la sua giovane età non determini la fondazione di tale pratica ma una riscoperta ed una nuova denominazione. Difatti ci riferiamo ad un’attività abituale del genere umano perché comprende quel complesso di strategie che tendono a favorire la creazione in primo luogo e la divulgazione nel secondo della nostra immagine che ha come fine un’integrazione sociale, relazione e lavorativa. Il sentimento di aggregazione che questa attività ha come valore finale appartiene a quell’istinto biologico che caratterizza l’animale umano in quanto uomo. Celebri sono le parole di Aristotele per cui “l’uomo è per natura un animale politico ed in quanto tale è portato a unirsi ai propri simili per formare delle comunità” (III). Il filosofo Stagirita rende manifesto come per natura dell’essere umano, come sua caratteristica ineliminabile, vi sia quel senso necessario per cui l’uomo trova piena possibilità di sviluppare e realizzare le proprie virtù nella polis, all’interno di una comunità. Ma possiamo anche retrocedere agli albori del genere umano in cui l’uomo comprese come la vita comunitaria creava maggiori possibilità di sopravvivenza nella mondo circostante.
Sicuramente tutto ciò ha subito un’evoluzione percettiva e metodologica che con l’introduzione e lo sviluppo della tecnologica nell’utilizzo quotidiano della popolazione ha determinato una vera e propria dissacrazione della sfera pubblica e privata. In questo contesto è impressionante a livello quantitativo (ma non escluderei quello qualitativo), l’utilizzo che è stato fatto e lo è ancora della pratica dei selfie che in molti studi vengono proposti come nuova tecnica moderna dell’autoritratto, ma per le sue caratteristiche pratiche vi è rimasto soltanto un sottile ed oramai lontano legame di parentela.
Una rivoluzione tecnologica che ha inglobato molti campi culturali ma in particolar modo quello artistico visivo. Musei e Gallerie d’Arte che perdono la loro regalità di manifestazioni artistiche, istruttive e di esaltazione dell’estetica più pura, relegate a luoghi di incontro e di aggregazione per lo più virtuale. I quadri divengono gli sfondi delle proprie storie personali raccontante da questi ‘autoritratti’, storie che perdono l’equilibrio tra realtà e finzione, mero spettacolo per lo spettatore. L’interesse per un particolare quadro è attentamente mirato ai sentimenti che si vogliono generare a quel pubblico informe che osserva per poter imitare. Sembrano ritrovarsi in una piazza senza alcuna consapevolezza di ciò che li circonda, uno sfondo sfocato di colori che non prendono forma se non secondo la propria utilità per il fine della trama. Sembrano “Scene da Film” (IV) in cui moltissimi tra uomini e donne si accalcano davanti ai quadri più celebri nel tentativo di realizzare il ‘selfie migliore’ per la ‘storia migliore’, abbagliati da quella soddisfazione della pubblicazione del selfie sui social media per quei “15 minuti di celebrità” (V).
In pochi oramai conoscono e sono vittime del ‘Duede’ o ‘Affektenlehre’, quel potere enigmatico e potente e sentimentale che alcune opere d’arte riescono a evocare nello spettatore, similmente alla sindrome di Stendhal. Difficilmente queste opere emozionano come un tempo per alcuni, ma sicuramente la causa è attribuibile al genere umano che non è più capace di osservare, di lasciarsi immergere nella storia, nella realtà che il pittore è riuscito ad esprime con le sue pennellate.
Non manca soltanto una cultura più approfondita dell’arte che mantiene tuttavia il suo carattere di linguaggio universale ma ancora di più si vede in una mancata istruzione dell’utilizzo degli strumenti tecnologici che nel loro esser quotidiani hanno creato realtà che si sono sovrapposte a quelle reali in un’interposizione che oscilla senza sosta tra privato e pubblico, anzi, ancora più precisamente tra sacro e profano. Vengono così confusi che nel momento in cui il privato viene sfoggiato e rischia di esser inglobato nella sfera pubblica, improvvisamente si impone un sentimento di ricerca costante e frenetica per la tutela della privacy. Questo è solo un indice di un sentimento contradditorio che non sa riconoscere più il limite d’azione. “il sacro incorpora concetti che oggi associamo a quelli di pubblico e di privato. È simile al privato perché deve rimanere inviolato, al riparo dalle incursioni del profano; ma è anche simile al pubblico, perché il sacro crea una comunità di fede” (VI).
E così in questa confusioni sociale in cui non vi è una realtà o una scienza propriamente attiva che inerisca a tali concetti, a fronte della nuova realtà socio-tecnologica anche i Musei si alterano al ‘passo con i tempi’. Così sono nate opere che coinvolgono il visitatore del museo, che favoriscono la creazione del suo ruolo di protagonista, la sua vetrinizzazione. Quello scatto che inizialmente realizzava il ricordo di quella meravigliosa esperienza che è propriamente l’osservazione e riflessione libera, senza alcun pregiudizio intellettuale e sociale, ha preso il posto dell’esperienza stessa, si identifica in essa senza poter addurre alcunchè al nostro animo, senza che vi sia va, appunto, vera esperienza ma solo registrazione di quel sentimento di esaltazione del carattere esibizionista dell’essere umano. Così sono nati ‘Musei dei Selfie’ che ripropogono copie di opere famose, o semplicemente pareti colorate per stimolare la nuova generazione ad interagire con qualcosa che non è più l’arte puramente intesa ma sceneggiature per il loro storytelling. E se non si stupirebbe il Museum of Selfies di Los Angeles, forse ci dovrebbe preoccupare il ‘No Filter Museum’ in una città come Vienna con la sua centenaria tradizione artistico-culturale. Tutto ciò per creare ‘Scene da Film’.
Sarà oggi ancora più forte il brivido davanti all'opera del 'Maestro della luce' William Turner? Chi verrebbe sopraffatto da quel grido raggelante de la 'Nave Negriera'?
Referenze
(I)“Marchiavate, ognuno aveva la possibilità di imparare, migliorare e creare le proprie capacità. Tutti hanno la possibilità di essere un marchio degno di nota” (II) ‘The Battle for Your Mind’, Al Ries e Jack Trout, 1980.
(III) Aristotele, Politica.
(IV) Fotografia, Sofia Scotti, 'Scene da Film', 2019.
(V) Andy Warhol.
Cosa ) Ripreso daThe New York Times on the Web, 18 novembre 2000.
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