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Violenza psicologica sulle donne: il pericolo di una vittima insicura

Aggiornamento: 5 lug 2020

Complesso di Cenerentola, sessismo benevolo, sessismo ostile, tutte problematiche sociali che segnalano un tipo di società in cui diverse donne vittime di insicurezza divengono protagoniste di meccanismi di discriminazione verbale, violenza psicologica ed estraniamento dalla realizzazione delle proprie potenzialità.

Immagine presa daUnsplash. Cortesia di Joushua Rawson-Harris.




ROMA- Secondo le mappe di intolleranza di Vox, Osservatorio Italiano sui Diritti, “le donne sono le principali vittime di tweet di odio. 326 mila dei 537mila tweet negativi del 2017-2018 sono contro le donne.” 


Con sempre più frequenza, si sente parlare di donne vittime di violenza psicologica di diversi tipi: svalutazione, aggressione verbale, gelosia incontrollata, minaccia, Revenge Porn fino all’isolamento sociale.


Ma qual è l’elemento che accomuna questi temi, chiave di un dibattito in continua evoluzione?


In principio, è bene fare chiarezza sull’ampio concetto di violenza psicologica

Il Telefono Rosa, abbreviazione per ‘Associazione Nazionale Volontarie del Telefono Rosa’ (1990), descrive la violenza psicologica sulle donne come una strategia cognitiva animata dal desiderio di ridurre drasticamente l’autostima della donna, in modo da renderla fragile ed esposta a sevizie psicologiche. 


La svalutazione della donna dettata da disparità nella concezione di genere diviene una svalutazione ad personam, dunque alla donna nella sua interezza. La donna è così assoggettata ad una condizione di disagio personale, di insulto gratuito, di gelosia incontrollata, di minaccia, di alienazione dal contesto sociale.


In un’intervista condotta nel 2014  sull’impegno delle volontarie coinvolte nel progetto Telefono Rosa di Napoli, Laura Russo, Presidente dell’associazione, definisce la violenza come un fenomeno culturalmente radicato in una sfera sociale in cui difficilmente si può parlare di una parità di genere effettiva. 


Nella realtà odierna, infatti, la violenza psicologica sulle donne diviene il casus belli di un dibattito pubblico in cui si gioca a dare le colpe, spesso ponendo l’accento sul chi piuttosto che sul perché


La stessa realtà dimostra come l’alternativa alla non-coscienza individuale sia l’indifferenza. Vuoi per rifiuto, vuoi per svalutazione, l’informazione circa la violenza psicologica sulle donne che viaggia attraverso le pareti delle case diviene spesso eterea. 


“La violenza è un problema sociale, di tutti, ed è importante considerarlo tale perché l’indifferenza crea un terreno più fertile per far nascere la violenza e farla diventare ancora più forte,” afferma Russo.


Secondo la Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne (1993) dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, per violenza sulle donne si intende “la manifestazione di una disparità storica nei rapporti di forza tra uomo e donna, che ha portato al dominio dell’uomo sulle donne e alla discriminazione contro di esse, e ha impedito un vero progresso nella condizione delle donne.”


Tuttavia, volendo arginare il dibattito sull’origine storica del predominio patriarcale, ci si potrebbe interrogare su quello che Pierre Bordieu, noto sociologo francese, soleva definire habitus di una determinata società. 


Un habitus che si sposa con l’idea di una società caratterizzata da un modello connaturato dalla violenza psicologica nei confronti del genere femminile è quello della donna affetta dalla sindrome della dipendenza affettiva.


Tale modello si basa sull’erroneo presupposto secondo cui la donna è un essere originariamente incompleto ma in continua tensione verso il compimento. 


Qual è, dunque, il rito di transizione fra l’incompletezza della donna in fase di ultimazione e la realizzazione in toto della sua identità?


Rivolgendo tali domande alle nostre nonne/i otterremmo una risposta diretta, che sintetizza il percorso che tante donne, pur rifiutandone il modello arcaico, intraprendono. 


“Poi Dio disse: non è bene che l’uomo sia solo. […] Allora Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse: è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa. La si chiamerà donna perché dall’uomo è stata tolta.” (Genesi 2,18,21-24)


Questo passo tratto dalla Genesi inquadra precisamente l’habitus culturale che è stato tramandato di coscienza in coscienza nel corso dei secoli

Il dibattito pubblico ha generalmente individuato l’uomo (in senso stretto) come responsabile della continuità generazionale. 


Eppure, ci siamo mai chiesti quale ruolo ha svolto e tutt’ora svolge la donna in questo meccanismo di violenza psicologica?


Nel 1981, Colette Dowling, scrittrice americana di successo, pubblica ‘The Cinderella Complex’, in italiano: ‘Il Complesso di Cenerentola: la segreta paura delle donne di essere indipendenti’. Sommariamente, il libro indaga il bisogno inconscio di molte donne di avere una persona al proprio fianco che si prenda sistematicamente cura di esse.


“Il principe le venne incontro, la prese per mano e danzò con lei. E non volle ballare con nessun’altra; non le lasciò mai la mano, e se un altro la invitava diceva: ‘E’ la mia ballerina.’ Cenerentola danzò fino a sera, poi volle andare a casa. Il principe disse: “Vengo ad accompagnarti,” perché‚ voleva vedere da dove veniva la bella fanciulla.” (Grimm J. & W.)


Veniamo dunque alle caratteristiche di questo meccanismo inconscio che accomuna donne di diverse età ed estrazione sociale. 


Secondo lo psicoterapeuta friulano, Maurizio Sgambati, il Complesso di Cenerentola deriva il suo nome dalla celebre fiaba Disney: ‘Cenerentola’. La fiaba ha come protagonista una bellissima giovane donna, la quale si cimenta diligentemente nei lavori di casa, nell’ardente attesa dell’arrivo del ‘principe azzurro’, il quale non è altro che un uomo idealizzato. 


Cenerentola, dunque, rappresenta metaforicamente la tensione della donna verso la vita matrimoniale/ di coppia, che diviene un unicum.


Tale complesso prevede un percorso ben preciso: dal desiderio alla dipendenza, fino ad arrivare a nutrire una vera e propria ossessione.


Secondo Sgambati, dal momento che il complesso comporta una continua ricerca di conforto, “Cenerentola diventa un bersaglio facile per persone che hanno bisogno di alimentare la propria autostima andando in soccorso di chi è in difficoltà.”


In altri casi, la Donna Cenerentola diviene soltanto un modo per asserire la propria persona ed alimentare il proprio narcisismo. 


In un post di La Mente è Meravigliosa, rivista digitale di psicologia, il Complesso di Cenerentola è descritto come elemento deviante per la donna, la quale rinuncia a realizzarsi autonomamente, sacrificando il proprio futuro in vista del suo ruolo di donna fragile e bisognosa di protezione. La donna si confina, dunque, tra le mura della casa, perché deve essere protetta dal marito. 


Ma a cosa ci riporta quest’immagine della donna il cui percorso viene volontariamente o inconsciamente ostruito?  

La Psicologia distingue fra sessismo benevolo e sessismo ostile. Ambo i concetti danno prova di una supposta disparità di genere ma anche di una rappresentazione polarizzata della figura femminile.  


Maria Rita Milanesi, psicoterapeuta lombarda, ricollega il concetto di sessismo benevolo ad una tipologia di donne affette da bassa autostima, proprio come nel Complesso di Cenerentola. Nonostante, però, la donna sia vista in chiave stereotipata, l’atteggiamento maschile è ancora pro-sociale. Il sessismo ostile, invece, testimonia l’esistenza di un forte pregiudizio verso le donne che si manifesta attraverso la svalutazione, l’atteggiamento discriminatorio e l’esclusione sociale.


In State of Mind, giornale di scienze psicologiche, Giulia Samorè, tirocinante milanese di psicologia, riporta le conclusioni di diversi studi condotti tra il 2004 ed il 2016, circa l’incidenza sociologica del sessismo benevolo ed ostile.


 Uno studio condotto da Forbes, Adams Curtis, and White e pubblicato sul giornale americano ‘Violence Against Women’, afferma che i partner sessisti sono maggiormente inclini alla violenza verbale e fisica durante liti domestiche. In tali casi, la donna viene facilmente etichettata come colpevole di aver meritato tale trattamento. 


In conclusione, diverse fonti testimoniano che la violenza psicologica e l’atteggiamento discriminatorio nei confronti del genere femminile si sono prepotentemente consolidati nella nostra cultura.


Studi e ricerche comprovano che la matrice del problema è più profonda rispetto all’esigenza di chiedersi di chi è la colpa. Figure come la Donna Cenerentola, la donna ‘ostile’, ed altre, richiamano alla necessità di educare donne e uomini al rispetto reciproco e al valore individuale.


Un trampolino di lancio verso l’effettiva parità di genere, prima ancora della costrizione in ruoli sociali, consiste proprio nel riconoscimento del potenziale intrinseco proprio ed altrui. 


FONTI:















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