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L’Italia di Gini: quanto sono alte le disuguaglianze? Un’analisi comparata

Aggiornamento: 26 mag 2020

La pandemia che sta caratterizzando questo 2020 non solo sta avendo un costo umano immisurabile ma anche un costo economico che avrà un impatto tangibile su tutti i paesi del mondo. La riduzione del PIL (Prodotto Interno Lordo) è solo l’effetto immediato della brusca fermata della macchina economica. Infatti, vari segmenti della popolazione non possono vivere per periodi prolungati senza un reddito e lasciarli privi di qualsiasi sostegno aumenterebbe le disuguaglianze. Una misura molto comune per quantificare le disuguaglianze in una popolazione è il coefficiente di Gini.


Cos’è il coefficiente di Gini?


Il grande vantaggio di questo indice è che, al contrario del rapporto interquintilico, racchiude in unico numero tutte le persone presenti nel territorio studiato. Il coefficiente di Gini è un indice introdotto nel 1912 da Corrado Gini, uno statistico italiano, che con valori fra 0 e 1 esprime la distanza fra la distribuzione reale del reddito in un paese e la situazione di perfetta uguaglianza [i]. Quando questo indice è uguale a 0 significa che tutti guadagnano esattamente lo stesso reddito. Quando invece è uguale a 1 vuol dire che una sola persona detiene tutto il reddito di un paese e tutti gli altri non hanno niente [ii]. Sfortunatamente, i valori inclusi fra questi estremi non sono interpretabili isolatamente ma devono essere comparati con i valori di altri periodi temporali o di altri paesi.

Si può quindi analizzare l’evoluzione del coefficiente di Gini di un paese attraverso gli anni o confrontare se è più alto o più basso di quello di altri paesi. Chiaramente, non tutti sono d’accordo sul livello teorico ottimale di disuguaglianza. Per esempio, c’è chi sostiene che le disuguaglianze non dovrebbero esistere e di conseguenza tutti dovrebbero guadagnare lo stesso reddito. D’altro canto, ci sono anche persone che vorrebbero un sistema nel quale le persone sono retribuite con somme diverse a condizione che questi salari vengano allocati in modo meritocratico. In altre parole, chi si impegna e produce di più dovrebbe guadagnare di più.


Quant'è disuguale l’Italia?


Per quanto interessante questo dibattito possa essere, questo articolo si concentra invece sul livello del coefficiente di Gini in Italia comparato con quelli di altri paesi sviluppati. Nel 2017, l’ultimo dato disponibile per l’Italia nel database dell’OCSE, il Belpaese aveva un coefficiente di 0.516. Per capire se questo dato sia positivo o meno, andiamo a compararlo con i 31 paesi dell’OCSE che hanno pubblicato i loro coefficienti di Gini negli ultimi 4 anni. In questa lista, l’Italia si posiziona ventisettesima, ovvero quartultima in classica. Se l’Italia fosse una squadra di Serie A, sfiorerebbe la zona retrocessione, con il Portogallo in terzultima posizione avendo un coefficiente superiore a quello italiano di appena 0.001. I tre paesi con meno disuguaglianze invece sono, in ordine, la Repubblica Slovacca (0.398), la Corea del Sud (0.406) e la Norvegia (0.426).


Lo stato come riduttore delle disuguaglianze


Onestamente, queste constatazioni non sono proprio allegre. Vi è però da tenere presente che questo coefficiente di Gini prende in considerazione i redditi al netto della tassazione e dei trasferimenti sociali da parte dello stato. Se si considerano invece i redditi inclusivi della tassazione e dei trasferimenti sociali, il coefficiente di Gini italiano diminuisce fino a 0.334. Come si può vedere sul grafico, questa decrescita si nota in tutti i paesi studiati. Infatti, anche se il coefficiente italiano si abbassa parecchio, nella classifica l’Italia sale però solo dalla ventisettesima alla ventitreesima posizione. Anche secondo questa metrica il paese meno disuguale rimane la Repubblica Slovacca, con un coefficiente di Gini di 0.241, seguita da Slovenia e Repubblica Ceca con valori leggermente più alti [iii]. Tutto sommato, con un coefficiente di Gini che scende del 35% quando si tiene in conto il ruolo dello stato, possiamo comunque dire che il sistema di welfare italiano riesce nel suo intento di ridurre le disuguaglianze, trasferendo le risorse dai più benestanti ai più bisognosi.


I risultati giustificano i costi?


Malgrado ciò, essere efficaci non significa essere pienamente efficienti. Nel grafico infatti si può vedere che vari paesi hanno una diminuzione drastica dell’indice. Per essere precisi, 16 paesi hanno una decrescita più forte dell’Italia. Potrebbe però essere possibile che questi paesi sono più impegnati dell’Italia nel ridurre le disuguaglianze e quindi investono una proporzione maggiore delle loro ricchezze nella spesa sociale. Andando a vedere il rapporto tra spesa sociale e PIL, vediamo tuttavia che l’Italia ha il quinto valore più alto tra i paesi dell’OCSE [iv]. Come si spiega una spesa così alta quando vari paesi ottengono risultati più marcati con spese relativamente minori?

La Cgia di Mestre nel 2019 ha messo l’accento su un possibile motivo, stimando gli sprechi nella pubblica amministrazione a 200 miliardi di euro: il doppio rispetto all’evasione fiscale stimata in Italia [v]. Ovviamente, una spesa sociale così elevata non può essere attribuita solo ad una mancanza di efficienza. Per esempio, l’Italia ha la seconda popolazione più anziana al mondo con 50% degli abitanti di età superiore a 47 anni [vi]: ciò si traduce in un maggior aggravio sul sistema pensionistico.

Quindi, sintetizzando, possiamo dire che l’Italia ha uno dei livelli di disuguaglianze più alti nel mondo sviluppato. Tenendo in conto l’intervento dello stato a traverso il sistema fiscale e i trasferimenti sociali, il coefficiente di Gini scende notevolmente ma rimane pur sempre nella seconda metà della classifica. Questo dato contrasta con la spesa sociale italiana che rimane fra le più alte al mondo. Tra i vari fattori che spiegano questo fenomeno, la scarsa efficienza della pubblica amministrazione non è da sottovalutare. Servono perciò studi accurati per capire se conviene ridurre la spesa sociale o investire nella sua maggiore produttività.



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